Qui il sito del concorso, il vincitore è "Evolution in 120 seconds", un piccolo gioiellino dal quale vi consiglio di cominciare (ma non dimenticate gli altri!)
The most exciting phrase to hear in science, the one that heralds the most discoveries, is not "Eureka!", but "That's funny..." (Isaac Asimov)
lunedì 9 novembre 2009
La Teoria dell'Evoluzione in 2 minuti
via Pharyngula, segnalo una raccolta di video molto belli che spiegano la teoria dell'evoluzione in due minuti, frutto di un concorso indetto dalla rivista Discover Magazine. Sono tutti in inglese, ma data la loro brevità e semplicità non dovreste avere problemi anche se ne avete solo un'infarinatura.
Dagli alberi al bipedismo
Scendere o salire?
pezzo originalmente pubblicato su Pikaia
Tracy L. Kivell, Daniel Schmitt, “Independent evolution of knucklewalking in African apes shows that humans did not evolve from a knucklewalking ancestor”, PNAS, Published online before print August 10, 2009, doi: 10.1073/pnas.0901280106
La lenta camminata dello scimmione che alzandosi su due piedi diventa uomo è una delle rappresentazioni più famose e diffuse dell'evoluzione umana, anche se per chi mastica anche solo un poco la teoria darwiniana è decisamente un'eresia: non esiste difatti una direzione nella storia evolutiva, e i nostri antenati non sono “diventati uomini” ma, più prosaicamente, una delle loro linee di discendenza ha accumulato variazioni che hanno portato alla nostra specie e in particolare alla statura eretta. Questa immagine potrebbe inoltre essere sbagliata anche in un altro senso se come sembra sempre più probabile (e l'ipotesi di per sé è antica come la teoria dell'evoluzione stessa) i nostri antenati non camminavano affatto sulle nocche alla maniera di gorilla e scimpanzé.
La diatriba si è finora polarizzata in due fazioni: chi credeva che le somiglianze nella locomozione di scimpanzé e gorilla (le scimmie antropomorfe viventi più vicine filogeneticamente alla nostra specie), entrambi camminatori sulle nocche, fossero un forte indizio della presenza dello stesso comportamento nei nostri ultimi antenati comuni, e chi invece trovava più probabile che sulla nostra linea evolutiva si posizionassero, prima della comparsa di specie adattate a passare buona parte del loro tempo muovendosi su due piedi a terra, solo primati arboricoli. Alcune scoperte, come ad esempio la presenza in Australopithecus afarensis (che però non è un nostro antenato diretto) di caratteristiche degli arti adatte a una vita parzialmente arborea sembravano dare credito a questa seconda visione, mentre alcuni tratti tipicamente considerati adattamenti alla camminata sulle
nocche ritrovati in molti fossili di ominini estinti raccontavano una storia diversa. Proprio questi ultimi tratti però (o almeno una parte consistente di essi) sono stati recentemente riesaminati e reinterpretati da Tracy Kivell del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig e Daniel Schmitt della Duke University di Durham.
Lo studio, pubblicato di recente su PNAS, mette innanzitutto in evidenza come le locomozioni di scimpanzé e gorilla siano molto meno simili di quanto si pensasse finora. Prendendo in esame il comportamento e le ossa del polso di più di 200 tra scimpanzé, bonobo e gorilla il gruppo di ricerca ha mostrato come le particolari caratteristiche che permettono a scimpanzé e bonobo (sono state trovate rispettivamente nel 96% e nel 76% dei campioni esaminati) di camminare agevolmente sulle nocche siano praticamente assenti nei gorilla (sono state trovate solo nel 6% del campione esaminato). I gorilla devono difatti stendere completamente braccio e polso in quella che Kivell chiama “columnar stance” (ovvero “posizione a colonna”) per diminuire lo stress sulle giunture ed evitare che le dita si pieghino troppo, invece di mantenere il polso flesso come scimpanzé e bonobo che sono dotati di una serie di creste e concavità ossee atte proprio ad evitare questo piegamento eccessivo. Inoltre, non solo la camminata sulle nocche sembra essersi evoluta separatamente e in due maniere diverse nei due generi Pan e Gorilla, ma molte caratteristiche che tra gli scimpanzé e i bonobo servono a rendere più efficiente questo tipo di locomozione si ritrovano tra numerose scimmie arboricole e non tra i gorilla. Da ultimo, i due ricercatori fanno notare come molte di quelle stesse caratteristiche che condividiamo con scimpanzé e gorilla e che si erano sempre pensate come adattamenti alla camminata sulle nocche sono in realtà presenti addirittura in alcune specie di lemuri e quindi sono più probabilmente il residuo di un adattamento alla vita tra gli alberi, piuttosto che al suolo.
Più precisamente, Kivell sostiene che i particolari adattamenti di scimpanzé e bonobo potrebbero essere stati fissati dal processo evolutivo per la necessità di stabilizzare il polso nel passare da un ramo all'altro, un'operazione che richiede una presa salda e sicura. Osservando i resti fossili dei nostri antenati vissuti dopo la divergenza evolutiva col ramo che porterà al genere Pan, la transazione dagli alberi alla savana aperta appare come un processo lungo, che vide un lungo periodo “ibrido” nel quale questi antichi ominini cominciarono a passare sempre più tempo al suolo continuando però ad affidare grossa parte delle proprie chance di sopravvivenza alla protezione offerta dagli alberi: proprio a questo scenario evolutivo sembrerebbe adattarsi perfettamente l'ipotesi “dagli alberi al bipedismo”, che trae nuova forza dallo studio di Kivell e Schmitt. Per quanto questa ipotesi non possa ancora dirsi totalmente provata, e gli stessi autori dello studio si dicono intenzionati a cercare nuove evidenze negli anni a venire, ha probabilmente segnato un punto decisivo in una delle più lunghe diatribe riguardanti l'evoluzione umana.
La diatriba si è finora polarizzata in due fazioni: chi credeva che le somiglianze nella locomozione di scimpanzé e gorilla (le scimmie antropomorfe viventi più vicine filogeneticamente alla nostra specie), entrambi camminatori sulle nocche, fossero un forte indizio della presenza dello stesso comportamento nei nostri ultimi antenati comuni, e chi invece trovava più probabile che sulla nostra linea evolutiva si posizionassero, prima della comparsa di specie adattate a passare buona parte del loro tempo muovendosi su due piedi a terra, solo primati arboricoli. Alcune scoperte, come ad esempio la presenza in Australopithecus afarensis (che però non è un nostro antenato diretto) di caratteristiche degli arti adatte a una vita parzialmente arborea sembravano dare credito a questa seconda visione, mentre alcuni tratti tipicamente considerati adattamenti alla camminata sulle
nocche ritrovati in molti fossili di ominini estinti raccontavano una storia diversa. Proprio questi ultimi tratti però (o almeno una parte consistente di essi) sono stati recentemente riesaminati e reinterpretati da Tracy Kivell del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig e Daniel Schmitt della Duke University di Durham.
Lo studio, pubblicato di recente su PNAS, mette innanzitutto in evidenza come le locomozioni di scimpanzé e gorilla siano molto meno simili di quanto si pensasse finora. Prendendo in esame il comportamento e le ossa del polso di più di 200 tra scimpanzé, bonobo e gorilla il gruppo di ricerca ha mostrato come le particolari caratteristiche che permettono a scimpanzé e bonobo (sono state trovate rispettivamente nel 96% e nel 76% dei campioni esaminati) di camminare agevolmente sulle nocche siano praticamente assenti nei gorilla (sono state trovate solo nel 6% del campione esaminato). I gorilla devono difatti stendere completamente braccio e polso in quella che Kivell chiama “columnar stance” (ovvero “posizione a colonna”) per diminuire lo stress sulle giunture ed evitare che le dita si pieghino troppo, invece di mantenere il polso flesso come scimpanzé e bonobo che sono dotati di una serie di creste e concavità ossee atte proprio ad evitare questo piegamento eccessivo. Inoltre, non solo la camminata sulle nocche sembra essersi evoluta separatamente e in due maniere diverse nei due generi Pan e Gorilla, ma molte caratteristiche che tra gli scimpanzé e i bonobo servono a rendere più efficiente questo tipo di locomozione si ritrovano tra numerose scimmie arboricole e non tra i gorilla. Da ultimo, i due ricercatori fanno notare come molte di quelle stesse caratteristiche che condividiamo con scimpanzé e gorilla e che si erano sempre pensate come adattamenti alla camminata sulle nocche sono in realtà presenti addirittura in alcune specie di lemuri e quindi sono più probabilmente il residuo di un adattamento alla vita tra gli alberi, piuttosto che al suolo.
Più precisamente, Kivell sostiene che i particolari adattamenti di scimpanzé e bonobo potrebbero essere stati fissati dal processo evolutivo per la necessità di stabilizzare il polso nel passare da un ramo all'altro, un'operazione che richiede una presa salda e sicura. Osservando i resti fossili dei nostri antenati vissuti dopo la divergenza evolutiva col ramo che porterà al genere Pan, la transazione dagli alberi alla savana aperta appare come un processo lungo, che vide un lungo periodo “ibrido” nel quale questi antichi ominini cominciarono a passare sempre più tempo al suolo continuando però ad affidare grossa parte delle proprie chance di sopravvivenza alla protezione offerta dagli alberi: proprio a questo scenario evolutivo sembrerebbe adattarsi perfettamente l'ipotesi “dagli alberi al bipedismo”, che trae nuova forza dallo studio di Kivell e Schmitt. Per quanto questa ipotesi non possa ancora dirsi totalmente provata, e gli stessi autori dello studio si dicono intenzionati a cercare nuove evidenze negli anni a venire, ha probabilmente segnato un punto decisivo in una delle più lunghe diatribe riguardanti l'evoluzione umana.
Riferimenti:
domenica 25 ottobre 2009
Pochi Neandertal per un grande continente
Una volta in Europa era tutta campagna

Riferimenti:

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia
Sono arrivati prima di noi nel Vecchio Continente e fino ad oggi sono quelli che lo hanno abitato più a lungo, ma nonostante questo incontrare un uomo di Neandertal in quell'epoca sarebbe stata egualmente un'impresa, o perlomeno lo studio condotto presso il Max Planck Institute of Evolutionary Anthropology di Leipzig da Svante Pääbo e Adrian Briggs e pubblicato su Science sembra dirci questo.
I due scienziati, famosi per aver messo a punto nuove tecniche per studiare mtDNA e DNA raccolti da reperti fossili (in particolare questo studio è stato reso possibile da una nuova tecnica, la primer extension capture, ideata da Briggs e molto meno costosa delle precedenti) e per aver lavorato a lungo al progetto genoma Neandertal, hanno analizzato i resti di sei individui vissuti tra i 70.000 e i 35.000 anni fa, l'ultimo periodo che ha visto la presenza Neandertal in Europa, e provenienti da diverse aree dell'Europa in cerca di informazioni riguardanti la variabilità genetica della nostra specie sorella. Da tempo si era ipotizzato che una delle possibili cause (o concause) della scomparsa di Homo neanderthalensis fosse da legare ad un basso tasso di fecondità o in generale a una scarsa presenza numerica, e scavi archeologici oltre che le analisi del DNA mitocondriale già effettuate avevano permesso di intuire come i Neandertal non vivessero in comunità molto numerose; la ricerca di Pääbo e colleghi non è quindi rivoluzionaria, ma è certamente la più completa e dirimente mai svolta finora in questo ambito.
In particolare, la variabilità genetica nel DNA mitocondriale di questa specie, solo 55 basi su 16000 tra i sei esemplari studiati, appare nel lavoro del gruppo di ricerca tre volte meno cospicua di quella presente negli uomini moderni, il che porta loro a stimare in circa 3500 gli individui di sesso femminili (più altrettanti maschili) presenti contemporaneamente in quel lungo periodo di tempo, e forse per tutta la storia di questa specie. Una stima del genere avrebbe una curiosa implicazione: i Neandertal sarebbero stati una specie a rischio praticamente dalla loro comparsa o comunque molto prima del nostro arrivo in Europa. In realtà gli stessi autori ammettono che il numero esiguo di campioni analizzati e il fatto che il DNA utilizzato fosse di tipo mitocondriale potrebbero aver portato a un risultato troppo basso, e una nuova stima ottenuta mediante un confronto con la popolazione finlandese attuale ha portato a un risultato leggermente maggiore: 70.000 individui, ad ogni modo ancora pochi.
Non sono mancate le critiche a questo studio, in particolare l'antropologa Anna Degioanni dell'università del Mediterrano di Marsiglia fa notare come la porzione di DNA mitocondriale utilizzata per la ricerca sia poco soggetta a mutazioni rispetto ad altre, che però si sposa bene con uno scenario già dedotto da altre tipologia di dati. Insomma, forse la stima è esageratamente bassa, ma all'interno di quel complicato puzzle riguardante la scomparsa dell'uomo di Neandertal il tassello del loro scarso numero è con tutta probabilità uno dei più rilevanti, e lo studio di Pääbo e Briggs permette certo di dare ad esso una forma più precisa.
I due scienziati, famosi per aver messo a punto nuove tecniche per studiare mtDNA e DNA raccolti da reperti fossili (in particolare questo studio è stato reso possibile da una nuova tecnica, la primer extension capture, ideata da Briggs e molto meno costosa delle precedenti) e per aver lavorato a lungo al progetto genoma Neandertal, hanno analizzato i resti di sei individui vissuti tra i 70.000 e i 35.000 anni fa, l'ultimo periodo che ha visto la presenza Neandertal in Europa, e provenienti da diverse aree dell'Europa in cerca di informazioni riguardanti la variabilità genetica della nostra specie sorella. Da tempo si era ipotizzato che una delle possibili cause (o concause) della scomparsa di Homo neanderthalensis fosse da legare ad un basso tasso di fecondità o in generale a una scarsa presenza numerica, e scavi archeologici oltre che le analisi del DNA mitocondriale già effettuate avevano permesso di intuire come i Neandertal non vivessero in comunità molto numerose; la ricerca di Pääbo e colleghi non è quindi rivoluzionaria, ma è certamente la più completa e dirimente mai svolta finora in questo ambito.
In particolare, la variabilità genetica nel DNA mitocondriale di questa specie, solo 55 basi su 16000 tra i sei esemplari studiati, appare nel lavoro del gruppo di ricerca tre volte meno cospicua di quella presente negli uomini moderni, il che porta loro a stimare in circa 3500 gli individui di sesso femminili (più altrettanti maschili) presenti contemporaneamente in quel lungo periodo di tempo, e forse per tutta la storia di questa specie. Una stima del genere avrebbe una curiosa implicazione: i Neandertal sarebbero stati una specie a rischio praticamente dalla loro comparsa o comunque molto prima del nostro arrivo in Europa. In realtà gli stessi autori ammettono che il numero esiguo di campioni analizzati e il fatto che il DNA utilizzato fosse di tipo mitocondriale potrebbero aver portato a un risultato troppo basso, e una nuova stima ottenuta mediante un confronto con la popolazione finlandese attuale ha portato a un risultato leggermente maggiore: 70.000 individui, ad ogni modo ancora pochi.
Non sono mancate le critiche a questo studio, in particolare l'antropologa Anna Degioanni dell'università del Mediterrano di Marsiglia fa notare come la porzione di DNA mitocondriale utilizzata per la ricerca sia poco soggetta a mutazioni rispetto ad altre, che però si sposa bene con uno scenario già dedotto da altre tipologia di dati. Insomma, forse la stima è esageratamente bassa, ma all'interno di quel complicato puzzle riguardante la scomparsa dell'uomo di Neandertal il tassello del loro scarso numero è con tutta probabilità uno dei più rilevanti, e lo studio di Pääbo e Briggs permette certo di dare ad esso una forma più precisa.
giovedì 22 ottobre 2009
Scatti selvaggi
Anche quest'anno il Natural History Museum di Londra delizia i suoi visitatori con una raccolta di fotografie naturalistiche mozzafiato (in quella sopra, uno splendido esemplare di Panthera leo si butta a riposare sul suolo dopo un lauto pasto, sì, quello è sangue), se non potrete recarvi nella City per tempo, però, temo che dovrete accontentarvi come me della galleria online.
p.s. Se qualcuno avesse una versione ingrandita e me la mandasse all'indirizzo email in alto a destra sarei davvero, davvero grato (stranamente questa si trova solo su NewScientist a queste dimensioni)
mercoledì 21 ottobre 2009
giovedì 15 ottobre 2009
Gli occhi nuovi del pipistrello

Pezzo scritto originalmente per Pikaia
La retina dei mammiferi può contenere due tipi di fotorecettori: i coni per la normale visione diurna e i bastoncelli per la visione notturna o con luce scarsa, e a seconda dello stile di vita a cui si è adattato ogni mammifero possiede questi ultimi o entrambi. I coni di molti mammiferi, inoltre, possiedono due popolazioni di pigmenti (noi umani assieme a tutte le scimmie del Vecchio Mondo e alcune di quelle sudamericane ne abbiamo tre), L e S, capaci di assorbire due diverse lunghezze d'onda: quelle lunghe del verde/rosso e quelle corte del blu/violetto. Il pigmento capace di intercettare queste ultime, in particolare, si è evoluto da quello che serviva, e serve ancora solo in pochissimi tra gli esemplari della nostra classe, a catturare i raggi ultravioletti (in pratica il pigmento in questione si è “spostato” di frequenza).
Com'è strutturata quindi la retina dei pipistrelli? Innanzitutto c'è da dire che l'ordine dei Chirotteri è suddiviso in due sottoordini: i microchirotteri (detti anche “veri pipistrelli”) e i megachirotteri o pipistrelli della frutta (ne fanno parte ad esempio le volpi volanti, i pipistrelli viventi più grandi). Proprio due microchirotteri dotati come tutto il sottoordine di occhi molto piccoli con retine dominate dai bastoncelli , Glossophaga soricina e Carollia perspicillata, sono stati oggetti dello studio. In un un primo tempo i ricercatori hanno trattato le retine di questi pipistrelli con anticorpi specifici per i vari pigmenti, scoprendo così la presenza di una percentuale minima, tra il 2 e il 4% del totale, di coni in mezzo alla moltitudine di bastoncelli. Possono sembrare pochi, ma studi effettuati su animali che ne presentano una quantità simile hanno dimostrato come questa permetta tranquillamente la visione diurna. L'analisi genetica dei pigmenti che normalmente permettono la visione delle frequenze corte, inoltre, ha permesso di determinare come i pipistrelli utilizzino i pigmenti S non per il blu/violetto ma per captare invece le frequenze dell'ultravioletto.
Già uno studio di qualche anno fa in realtà aveva dimostrato la capacità di individuare la radiazione ultravioletta in un pipistrello della frutta, Glossophaga soricina, ma all'epoca non era stato possibile individuare coni nella retina di questa specie e si era quindi attribuita questa abilità a qualche proprietà dei coni; questo studio, quindi, permette di comprendere meglio il funzionamento di questa caratteristica anche in altre specie oltre a quella direttamente studiata, oltre che a estenderla a un altro sottoordine dei chirotteri. Essere dotati sia di visione dicromatica che di visione ultravioletta è un notevole adattamento, molto utile in specie come i pipistrelli che sono attive dal tramonto all'alba e ne abbisognano sia per evitare i predatori sia per procurarsi il cibo (molte specie di fiori alle quali si approvvigionano i megachirotteri riflettono i raggio UV, ad esempio), ed è solo un altra delle spiegazioni l'incredibile successo evolutivo di un ordine diffuso in quasi tutto il mondo.
Riferimenti:
Müller B, Glösmann M, Peichl L, Knop GC, Hagemann C, et al. “Bat Eyes Have Ultraviolet Sensitive Cone Photoreceptors”. PLoS ONE, 4(7)
martedì 13 ottobre 2009
[Recensione] Il libro dell'ignoranza sugli animali
Non si finisce mai di scoprire, per fortuna


Sono abbastanza sicuro che molti di voi geek abbiate scartato "Il Libro dell'Ignoranza sugli Animali" quando, durante i vostri ciclici raid in libreria in cerca di qualcosa di nuovo da dare in pasto alla materia rosa (tanto per entrare subito in clima, dato che nel precedente libro gli stessi autori spiegavano che da vivi il cervello, essendo irrorato di sangue, ha questo colore piuttosto che il grigiolino post-mortem), sfogliando i libri della sezione scientifica ve lo siete ritrovato davanti. Lo so perché anch'io l'ho fatto, salvo poi ritrovarlo nelle segnalazioni di lettura dell'ultimo numero di LeScienze e pentirmene un poco. Sarà stato l'effetto tarpone (avrà sicuramente un nome vero ma a me piace questo), ma quando sono andato in libreria a comprare un regalo per la sorella questo libro mi è letteralmente caduto tra le mani, quasi a ricordarmi la mia snobberia, e non ho potuto fare a meno di comprarlo.
Potrei chiudere la recensione con una sola parola: AMAZING! ma tanto vale scrivere qualche riga in più, non credo ci sia molta gente che mi prende sulla parola.
Forse è meglio spiegare che quell'amazing non è tanto riferito al libro, che di per sé è scritto molto bene ma non è un capolavoro della letteratura (per fortuna), ed è invece tutto ciò che riuscirete a dire man mano che andrete avanti con la lettura. A essere amazing è l'insieme delle tecniche bizzarre, ovviamente solo dalla nostra prospettiva limitata, che sono comparse nel mondo animale grazie al processo evolutivo. Ci sono talmente tante specie diverse là fuori che probabilmente nessuna persona al mondo potrà mai vedere esemplari di nemmeno un decimo di loro, e ognuna di queste specie è a modo suo unica: riuscite a a immaginere quante possibili diverse combinazioni di caratteristiche vengono sperimentate in questo momento dal mondo animale? bene, ce ne sono molte, molte di più, e non avete idea di cosa la Natura è riuscita a "inventarsi".
Questo libro vi farà conoscere i segreti meno noti di un centinaio di specie, alcune delle quali così comuni che probabilmente avete vissuto assieme a una di loro, regalandovi qualche oretta di intrattenimento (sono 300 pagine) e, si spera, una dipendenza che solo ore di National Geographic potranno tenere a bada in seguito. Il formato è molto pratico, il libro è diviso in capitoletti di massimo 3 pagine ognuno dedicato a una sola specie o genere, e le illustrazioni sono dei piccoli capolavori, disegnate non a caso da un ingegnere, che fanno sembrare le spiegazioni della fisiologia animali progetti per costruire dei futuristici cyborg. 16 euro possono sembrare tanti, ma un libro come questo lo sfoglierete più di una volta, garantito (e in più è ricco di storielle da raccontare per rimorchiare, quantomeno se il vostro territorio di caccia è il bar davanti alla facoltà di Biologia).
p.s. Il tutto viene da una trasmissione della Bbc, QI, uno dei tanti esempi di quanto all'estero diano la polvere ai nostri media (e dire che importiamo così tanti format televisivi!) specialmente per quanto riguarda la capacità di divulgare e raccontare la scienza.
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