The most exciting phrase to hear in science, the one that heralds the most discoveries, is not "Eureka!", but "That's funny..." (Isaac Asimov)

domenica 25 ottobre 2009

Pochi Neandertal per un grande continente

Una volta in Europa era tutta campagna

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Sono arrivati prima di noi nel Vecchio Continente e fino ad oggi sono quelli che lo hanno abitato più a lungo, ma nonostante questo incontrare un uomo di Neandertal in quell'epoca sarebbe stata egualmente un'impresa, o perlomeno lo studio condotto presso il Max Planck Institute of Evolutionary Anthropology di Leipzig da Svante Pääbo e Adrian Briggs e pubblicato su Science sembra dirci questo.

I due scienziati, famosi per aver messo a punto nuove tecniche per studiare mtDNA e DNA raccolti da reperti fossili (in particolare questo studio è stato reso possibile da una nuova tecnica, la primer extension capture, ideata da Briggs e molto meno costosa delle precedenti) e per aver lavorato a lungo al progetto genoma Neandertal, hanno analizzato i resti di sei individui vissuti tra i 70.000 e i 35.000 anni fa, l'ultimo periodo che ha visto la presenza Neandertal in Europa, e provenienti da diverse aree dell'Europa in cerca di informazioni riguardanti la variabilità genetica della nostra specie sorella. Da tempo si era ipotizzato che una delle possibili cause (o concause) della scomparsa di Homo neanderthalensis fosse da legare ad un basso tasso di fecondità o in generale a una scarsa presenza numerica, e scavi archeologici oltre che le analisi del DNA mitocondriale già effettuate avevano permesso di intuire come i Neandertal non vivessero in comunità molto numerose; la ricerca di Pääbo e colleghi non è quindi rivoluzionaria, ma è certamente la più completa e dirimente mai svolta finora in questo ambito.

In particolare, la variabilità genetica nel DNA mitocondriale di questa specie, solo 55 basi su 16000 tra i sei esemplari studiati, appare nel lavoro del gruppo di ricerca tre volte meno cospicua di quella presente negli uomini moderni, il che porta loro a stimare in circa 3500 gli individui di sesso femminili (più altrettanti maschili) presenti contemporaneamente in quel lungo periodo di tempo, e forse per tutta la storia di questa specie. Una stima del genere avrebbe una curiosa implicazione: i Neandertal sarebbero stati una specie a rischio praticamente dalla loro comparsa o comunque molto prima del nostro arrivo in Europa. In realtà gli stessi autori ammettono che il numero esiguo di campioni analizzati e il fatto che il DNA utilizzato fosse di tipo mitocondriale potrebbero aver portato a un risultato troppo basso, e una nuova stima ottenuta mediante un confronto con la popolazione finlandese attuale ha portato a un risultato leggermente maggiore: 70.000 individui, ad ogni modo ancora pochi.

Non sono mancate le critiche a questo studio, in particolare l'antropologa Anna Degioanni dell'università del Mediterrano di Marsiglia fa notare come la porzione di DNA mitocondriale utilizzata per la ricerca sia poco soggetta a mutazioni rispetto ad altre, che però si sposa bene con uno scenario già dedotto da altre tipologia di dati. Insomma, forse la stima è esageratamente bassa, ma all'interno di quel complicato puzzle riguardante la scomparsa dell'uomo di Neandertal il tassello del loro scarso numero è con tutta probabilità uno dei più rilevanti, e lo studio di Pääbo e Briggs permette certo di dare ad esso una forma più precisa.


Riferimenti:

giovedì 22 ottobre 2009

Scatti selvaggi


Anche quest'anno il Natural History Museum di Londra delizia i suoi visitatori con una raccolta di fotografie naturalistiche mozzafiato (in quella sopra, uno splendido esemplare di Panthera leo si butta a riposare sul suolo dopo un lauto pasto, sì, quello è sangue), se non potrete recarvi nella City per tempo, però, temo che dovrete accontentarvi come me della galleria online.

p.s. Se qualcuno avesse una versione ingrandita e me la mandasse all'indirizzo email in alto a destra sarei davvero, davvero grato (stranamente questa si trova solo su NewScientist a queste dimensioni)


mercoledì 21 ottobre 2009

Teach *THIS* controversy






(Ho dovuto splittare la striscia in 4 per colpa di blogger)

giovedì 15 ottobre 2009

Gli occhi nuovi del pipistrello

Pezzo scritto originalmente per Pikaia

In inglese si dice “Blind as a Bat” (“cieco come un pipistrello”), ma a quanto pare l'espressione è decisamente infelice se come rivela uno studio pubblicato su PlosOne da un gruppo di ricerca del Max Planck Institute for Brain Research di Francoforte e del dipartimento di Neurologia dell'università di Oldenburg questi animali stupendamente adattati (sono gli unici mammiferi dotato di volo battente e messi tutti assieme rappresentano un quinto del numero totale di specie nella classe dei mammiferi) non solo fanno affidamento sul senso della vista, ma perlomeno alcuni di loro sono tra i pochi mammiferi a possedere anche la visione a ultravioletti.

La retina dei mammiferi può contenere due tipi di fotorecettori: i coni per la normale visione diurna e i bastoncelli per la visione notturna o con luce scarsa, e a seconda dello stile di vita a cui si è adattato ogni mammifero possiede questi ultimi o entrambi. I coni di molti mammiferi, inoltre, possiedono due popolazioni di pigmenti (noi umani assieme a tutte le scimmie del Vecchio Mondo e alcune di quelle sudamericane ne abbiamo tre), L e S, capaci di assorbire due diverse lunghezze d'onda: quelle lunghe del verde/rosso e quelle corte del blu/violetto. Il pigmento capace di intercettare queste ultime, in particolare, si è evoluto da quello che serviva, e serve ancora solo in pochissimi tra gli esemplari della nostra classe, a catturare i raggi ultravioletti (in pratica il pigmento in questione si è “spostato” di frequenza).

Com'è strutturata quindi la retina dei pipistrelli? Innanzitutto c'è da dire che l'ordine dei Chirotteri è suddiviso in due sottoordini: i microchirotteri (detti anche “veri pipistrelli”) e i megachirotteri o pipistrelli della frutta (ne fanno parte ad esempio le volpi volanti, i pipistrelli viventi più grandi). Proprio due microchirotteri dotati come tutto il sottoordine di occhi molto piccoli con retine dominate dai bastoncelli , Glossophaga soricina e Carollia perspicillata, sono stati oggetti dello studio. In un un primo tempo i ricercatori hanno trattato le retine di questi pipistrelli con anticorpi specifici per i vari pigmenti, scoprendo così la presenza di una percentuale minima, tra il 2 e il 4% del totale, di coni in mezzo alla moltitudine di bastoncelli. Possono sembrare pochi, ma studi effettuati su animali che ne presentano una quantità simile hanno dimostrato come questa permetta tranquillamente la visione diurna. L'analisi genetica dei pigmenti che normalmente permettono la visione delle frequenze corte, inoltre, ha permesso di determinare come i pipistrelli utilizzino i pigmenti S non per il blu/violetto ma per captare invece le frequenze dell'ultravioletto.

Già uno studio di qualche anno fa in realtà aveva dimostrato la capacità di individuare la radiazione ultravioletta in un pipistrello della frutta, Glossophaga soricina, ma all'epoca non era stato possibile individuare coni nella retina di questa specie e si era quindi attribuita questa abilità a qualche proprietà dei coni; questo studio, quindi, permette di comprendere meglio il funzionamento di questa caratteristica anche in altre specie oltre a quella direttamente studiata, oltre che a estenderla a un altro sottoordine dei chirotteri. Essere dotati sia di visione dicromatica che di visione ultravioletta è un notevole adattamento, molto utile in specie come i pipistrelli che sono attive dal tramonto all'alba e ne abbisognano sia per evitare i predatori sia per procurarsi il cibo (molte specie di fiori alle quali si approvvigionano i megachirotteri riflettono i raggio UV, ad esempio), ed è solo un altra delle spiegazioni l'incredibile successo evolutivo di un ordine diffuso in quasi tutto il mondo.

Riferimenti:
Müller B, Glösmann M, Peichl L, Knop GC, Hagemann C, et al. “Bat Eyes Have Ultraviolet Sensitive Cone Photoreceptors”. PLoS ONE, 4(7)

martedì 13 ottobre 2009

[Recensione] Il libro dell'ignoranza sugli animali

Non si finisce mai di scoprire, per fortuna

Sono abbastanza sicuro che molti di voi geek abbiate scartato "Il Libro dell'Ignoranza sugli Animali" quando, durante i vostri ciclici raid in libreria in cerca di qualcosa di nuovo da dare in pasto alla materia rosa (tanto per entrare subito in clima, dato che nel precedente libro gli stessi autori spiegavano che da vivi il cervello, essendo irrorato di sangue, ha questo colore piuttosto che il grigiolino post-mortem), sfogliando i libri della sezione scientifica ve lo siete ritrovato davanti. Lo so perché anch'io l'ho fatto, salvo poi ritrovarlo nelle segnalazioni di lettura dell'ultimo numero di LeScienze e pentirmene un poco. Sarà stato l'effetto tarpone (avrà sicuramente un nome vero ma a me piace questo), ma quando sono andato in libreria a comprare un regalo per la sorella questo libro mi è letteralmente caduto tra le mani, quasi a ricordarmi la mia snobberia, e non ho potuto fare a meno di comprarlo.

Potrei chiudere la recensione con una sola parola: AMAZING! ma tanto vale scrivere qualche riga in più, non credo ci sia molta gente che mi prende sulla parola.

Forse è meglio spiegare che quell'amazing non è tanto riferito al libro, che di per sé è scritto molto bene ma non è un capolavoro della letteratura (per fortuna), ed è invece tutto ciò che riuscirete a dire man mano che andrete avanti con la lettura. A essere amazing è l'insieme delle tecniche bizzarre, ovviamente solo dalla nostra prospettiva limitata, che sono comparse nel mondo animale grazie al processo evolutivo. Ci sono talmente tante specie diverse là fuori che probabilmente nessuna persona al mondo potrà mai vedere esemplari di nemmeno un decimo di loro, e ognuna di queste specie è a modo suo unica: riuscite a a immaginere quante possibili diverse combinazioni di caratteristiche vengono sperimentate in questo momento dal mondo animale? bene, ce ne sono molte, molte di più, e non avete idea di cosa la Natura è riuscita a "inventarsi".

Questo libro vi farà conoscere i segreti meno noti di un centinaio di specie, alcune delle quali così comuni che probabilmente avete vissuto assieme a una di loro, regalandovi qualche oretta di intrattenimento (sono 300 pagine) e, si spera, una dipendenza che solo ore di National Geographic potranno tenere a bada in seguito. Il formato è molto pratico, il libro è diviso in capitoletti di massimo 3 pagine ognuno dedicato a una sola specie o genere, e le illustrazioni sono dei piccoli capolavori, disegnate non a caso da un ingegnere, che fanno sembrare le spiegazioni della fisiologia animali progetti per costruire dei futuristici cyborg. 16 euro possono sembrare tanti, ma un libro come questo lo sfoglierete più di una volta, garantito (e in più è ricco di storielle da raccontare per rimorchiare, quantomeno se il vostro territorio di caccia è il bar davanti alla facoltà di Biologia).

p.s. Il tutto viene da una trasmissione della Bbc, QI, uno dei tanti esempi di quanto all'estero diano la polvere ai nostri media (e dire che importiamo così tanti format televisivi!) specialmente per quanto riguarda la capacità di divulgare e raccontare la scienza.

mercoledì 7 ottobre 2009

Tutto su Ardi

Pezzo scritto originalmente per Pikaia e pubblicato giusto oggi, lo riporto qui fresco di stampa

Era qualche anno che si aspettava questo momento, fin dallo studio svolto sui primi reperti e pubblicato più di un decennio fa, e finalmente Ardipithecus ramidus fa in questi giorni la sua entrata in scena in grande stile con uno speciale totalmente dedicato su Science (liberamente accessibile, dopo una semplice registrazione gratuita, a questo indirizzo); cosa c'è di tanto interessante, e importante, in questo ominide vissuto circa 4 milioni di anni fa? Fno ad oggi, al di là del valore che ogni fossile di ominide così arcaico ha di per sé, potevamo solo intuirlo. I nuovi reperti recuperati dal gruppo di ricerca diretto da Tim White, però, hanno contribuito a ricostruire questo nostro possibile antenato (non è scontato difatti che si trovi direttamente sulla nostra linea di ascendenza, anche se è probabile) meglio di quanto non fosse mai stato fatto con un reperto così antico, rendendo così possibili osservazioni cruciali sull'evoluzione dei nostri antenati pliocenici e sull'aspetto degli antenati comuni, vissuti un paio di milioni di anni prima di Ardi (questo il nomignolo del fossile-tipo di Ardipithecus ramidus), tra noi e gli scimpanzé.

Ardi è, per usare le parole di Tim White, uno “strano collage”, e in generale assomiglia agli ominidi successivi molto più di quanto ci si aspettasse; cosa significa tutto questo? Vediamo prima in dettaglio di cosa stiamo parlando. La parte superiore del corpo di questa specie ci racconta di una vita passata sugli alberi: braccia lunghe e grandi mani dalle dita curve per muoversi tra le fronde aggrappandosi ai rami con presa salda. Fin qui niente di strano, sono adattamenti che ritroveremo anche nelle cronologicamente successive australoopitecine e nelle antropomorfe odierne, ma se si scende fino al bacino e oltre cominciano le sorprese: a quanto pare Ardi passava del tempo al suolo camminando su due piedi, senza aiutarsi con gli arti superiori.

Le ossa delle pelvi, per prima cosa, sono molto diverse da quelle degli scimpanzé e dei gorilla: in queste scimmie antropomorfe, che a terra camminano sulle nocche delle mani, sono quasi piatte e formano un apertura più stretta, mentre in Ardipithecus ramidus hanno una forma maggiormente “tondeggiante” e assomigliano di più a quelle delle australopitecine e degli ominidi nostri antenati di là da venire. Questa forma delle pelvi è un evidente adattamento per la posizione eretta, in quanto dona un supporto maggiore alle viscere durante la camminata bipede. Se si osserva il femore inoltre le prove che si spostasse in questa maniera sul terreno aumentano, perché questo formava con tibia e perone un angolo invece di disporsi in linea retta: un altro indizio che ci permette di affermare con sicurezza almeno una cosa: Ardi non camminava sulle nocche. Non bisogna però pensare a lui come a uno scimmione che se ne andava tranquillamente a passeggio per la savana, perché è molto probabile che camminasse solo ogni tanto su due piedi e passasse invece la buona parte della sua vita sugli alberi. Se si osserva il piede, in particolare, si nota che questo presenta un alluce estremamente divergente molto simile a quello delle antropomorfe, che inoltre è piatto invece che arcuato come il nostro ma, a differenza di gorilla e scimpanzé, possiede quel piccolo osso che nelle scimmie non antropomorfe (e negli esseri umani) permette di mantenere il piede rigido. Ardi poteva quindi compiere solo brevi tragitti con un incedere che a noi sembrerebbe goffo (probabilmente ondeggerebbe un po', come le anatre), e tuttavia la sua locomozione era molto diversa da quella delle scimmie antropomorfe oggi viventi, tanto che i recenti studi che hanno proposto una locomozione diversa da quella di scimpanzé e gorilla per i nostri antenati comuni con loro (Pikaia ne ha parlato qui) ricevono ulteriore credito da questo ominide pliocenico.

Lo speciale di Science affronta anche gli aspetti riguardanti all'ambiente abitato da questa specie, che secondo l'ipotesi del gruppo di studiosi scendeva così spesso al suolo perché aveva una dieta molto più generalizzata degli scimpanzé odierni e quindi necessitava di sfruttare nuove fonti di cibo; tuttavia gli aspetti più interessanti (che occupano gli ultimi due articoli) sono sicuramente quelli riguardanti le implicazioni che Ardi ha per quanto riguarda l'aspetto del nostro antenato comune degli scimpanzé e il suo posto nella nostra filogenesi.

A quanto pare scimpanzé e gorilla si sono specializzati, lungo il corso dei milioni di anni, molto più di quanto (forse ingenuamente) non si fosse portati a credere. Generazioni di scienziati hanno considerato le antropomorfe africane come delle buone approssimazioni del nostro antenato comune con loro, ma questo e altri studi (come le già ricordate ricerche che mettono in dubbio l'origine comune della camminata sulle nocche per scimpanzé e gorilla) ci aiutano finalmente a perdere quella che forse è l'inconscia arroganza di voler essere “più evoluti” dei nostri “cugini” africani. A quanto pare entrambi siamo cambiati molto nel differenziarci dal nostro antenato comune: non siamo quella scimmia speciale che ha deciso di “elevarsi” lasciando indietro le altre, come spesso può capitare di pensare ai più ingenui.

Per quanto riguarda il posto di Ardi nella filogenesi degli ominidi, invece, la situazione si fa più difficile da districare. La proposta di Tim White, coerente con le sue teorie espresse già negli anni passati, è che Ardipithecus ramidus sia una cronospecie, ovvero uno stadio particolare di una lunga e diretta linea di discendenza, di una stessa specie che sarebbe “cominciata” con Ardipithecus kadabba e proseguita attraverso Australopithecus anamensis fino ad Australopithecus afarensis, dopo il quale la linea si sarebbe divisa in due: da un lato le altre australopitecine, dall'altro gli uomini. Non eventi continui di speciazione, quindi, ma una lunga linea di discendenza che man mano ha preso forme diverse per adattarsi al mutare dell'ambiente. Assieme a questa, in ogni caso, gli autori dello studio presentano altre due ipotesi in contrasto con la precedente: potrebbe esserci stato un evento di speciazione tra l'ultimo Ardipithecus e il primo Australopithecus oppure Ardipithecus ramidus potrebbe essere il frutto di una divisione ancora più antica nel ramo degli ominidi. La sistemazione di un reperto così antico in una filogenesi porta sempre con sé notevoli difficoltà e si presta spesso più che altro a essere utilizzato per confermare le proprie ipotesi di partenza: per questi motivi non mancheranno certo discussioni e diatribe, ma queste sono spesso il vero motore delle ricerche scientifiche.


Da qui si accede agli 11 articoli dello speciale di Science
Da qui si accede ad una galleria d'immagini
Da qui si accede ad alcune interviste a Tim White (1, 2, 3, 4)

domenica 4 ottobre 2009

Arriva Ardi

Sto preparando il pezzo per Pikaia, nel frattempo siccome forse avrete sentito che Ardipithecus ramidus (un ominide molto molto antico, molto più della famosa Lucy per dire) ha finalmente un buon numero di ritrovamenti fossili e uno speciale tutto tuo su Science (a proposito, potete averlo con una semplice registrazione gratuita!) qualche buon link per chi proprio non sa aspettare (e legge l'inglese).

Ecco a voi quindi:

Il prevedibilmente ottimo post di Laelaps

Zinjianthropus uno e due


Immigrati dell'età della pietra

L'arrivo di Homo sapiens in Europa

Pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Cosa è successo tra 48.000 e 30.000 anni fa, ovvero nel periodo compreso tra la prima attestazione della presenza sapiens in Europa e il momento in cui solo questa specie di Homo abitò il continente? John Hoffecker ha recentemente fatto il punto della situazione in un bell'articolo scritto per PNAS, offrendo una buona occasione per riassumere brevemente le conoscenze a riguardo anche qui, rimandando comunque a questo lavoro per una trattazione particolarmente esaustiva. L'uomo anatomicamente moderno si è evoluto in Africa e ne è poi uscito per diffondersi in tutto il mondo un poco alla volta, ma quando e come è arrivato in Europa? inoltre, qui ha incontrato un altra specie umana, i Neandertal, com'è stato il loro incontro? sono domande alle quali è complicato rispondere, il che le rende particolarmente interessanti. Ci sono alcuni motivi in particolare che rendono difficoltose queste ricerche, innanzitutto la natura dei ritrovamenti che finora hanno restituito scarsissimi reperti umani e che perlopiù consistono in strumenti litici non sempre facilmente attribuibili.

Le prime evidenze di presenza dell'uomo anatomicamente moderno in Europa risalgono a 48.000 anni fa e sono localizzate nell'area centro-sud-orientale del continente, tra la Polonia e la Bulgaria. La loro attribuzione è basata unicamente sul ritrovamento di artefatti, assegnati alla cultura Bohuniaziana (dal sito di Brno-Bohunice in Moravia), molto simili a quelli ritrovati nel Vicino Oriente (Israele, Libano e Turchia) e appartenti all'industria litica chiamata Emiranom incontrovertibilmente associata con l'uomo anatomicamente moderno, tuttavia è ormai accettata da buona parte degli archeologi. Similmente anche ritrovamenti più recenti, databili a circa 45.000 anni fa, in Europa centro-meridionale di strumenti litici detti Proto-Aurignaziani sono attribuiti all'uomo anatomicamente moderno solo sulla base della somiglianza con un cultura, l'Ahmariano, del Vicino Oriente e incontrovertibilmente sapiens. Questi due gruppi di testimonianze rappresentano molto probabilmente le due ondate migratorie con le quali Homo sapiens è arrivato inizialmente in Europa dal Vicino Oriente e attraversando i Balcani, segnando l'inizio di una nuova era per questo continente. Altre vie d'ingresso, come la penisola Iberica e il Caucaso, sembrano meno probabili poiché in queste aree l'uomo di Neandertal è presente fino a un'epoca molto tarda.

I siti di cui si è detto fin qui, così come quelli dell'Europa centrale dove si ritrovano le stesse culture litiche, mostrano inoltre un ulteriore aspetto dell'immigrazione sapiens in Europa: innovazioni negli strumenti litici e nell'organizzazione dei siti, che in seguito si succederanno a una velocità vertiginosa permettendo il perfetto adattamento dell'ambiente alle esigenze della nostra specie. Se infatti in un primo momento questa venne favorita dal clima divenuto temporaneamente più mite, uno dei motivi per cui l'Homo sapiens riuscì ad affermarsi in una nicchia ecologica per la quale i Neandertal erano decisamente più adattati fu un costante progresso tecnologico, che adattava sempre meglio l'ambiente alle esigenze della specie.

La questione del rapporto tra Homo sapiens e Homo neanderthaliensis è infine complicata da due ordini di testimonianze che apparentemente si contraddicono a vicenda: da un lato l'analisi del genoma dell'uomo contemporaneo, dei CroMagnon e dei Neandertal indica come questi ultimi non abbiano lasciato tracce nel nostro DNA (sia nucleare che mitocondriale), dall'altro lato alcuni reperti ambigui e apparentemente ibridi (se n'è parlato anche qui su Pikaia) sembrano raccontare una storia diversa, e alcuni ritrovamenti di strumenti costruiti da un taxon con le ossa dell'altro complicano il quadro. Comprendere la maniera in cui l'uomo anatomicamente moderno si è affermato in Europasarà difficile finché non verrà risolta la questione del rapporto coi Neandertal, tuttavia questa è probabilmente la sfida più interessante per chi si occupa dell'Europa preistorica.

Riferimenti

John F. Hoffecker, "The spread of modern humans in Europe", PNAS

venerdì 2 ottobre 2009

L'ingegnere della giungla

scimpanzé e cassette degli atrezzi


Pezzo originalmente pubblicato su Pikaia

Anche dopo cinquantanni di ricerca sul campo gli scimpanzé non smettono di stupire per il loro modo ingegnoso e flessibile di costruire strumenti e trovare nuove soluzioni per sopravvivere. I risultati del recente studio pubblicato sul Journal of Human Evolution da Christophe Boesch, del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig, e svolto tra gli scimpanzé dell'Africa centrale (Pan troglodytes troglodytes) a Loango in Gabon confermano difatti le scoperte fatte da Sanz e Morgan, ricercatori presso lo stesso istituto, nel triangolo di Goualougo nella vicina Repubblica Democratica del Congo, recentemente riesaminate dagli stessi autori per l'International Journal of Primatology.

Quello che colpisce maggiormente dei comportamenti di uso di strumenti osservati in questi due siti e che non è stato ancora riscontrato in altre zone dell'Africa è una caratteristica particolarmente raffinata, ovvero l'uso seriale di utensili e quindi la creazione di veri e propri “set” utilizzati poi per raggiungere lo scopo prefissato. L'innovazione tecnologica più interessante tra quelle osservate daBoesch è rivolta a recuperare il miele dagli alveari, sia quelli sotterranei che quelli posti sugli alberi a venti metri di altezza o al livello del terreno all'interno dei tronchi caduti al suolo: in questi casi gli scimpanzé possono rompere l'alveare con un grosso ramo, allargare il buco con una leva più piccola e quindi inserire un ultimo ramoscello, ancora più sottile, per estrarre il miele. In alcuni casi, infine, sono stati visti gli scimpanzé utilizzare pezzi di corteccia per raschiare ulteriore miele dall'alveare e, ancora più interessante, sottili sonde per individuare gli alveari sotterranei. Questa fonte di cibo non sembra particolarmente nutritiva in rapporto alle energie utilizzate per ottenerla, e si può dire che l'unico scopo che spinge questi animali a utilizzare una sequenza di cinque strumenti, la più lunga mai registrata, sia la golosità.

Una fonte di cibo più tipica della specie sono le termiti, e uno dei set di strumenti osservati da Sanz e Morgan riguardanti questo tipo di approvvigionamento ricorda molto i risultati dello studio di Boesch. Tra gli scimpanzé del triangolo di Goualougo capita infatti che termitai sotterranei vengano dapprima individuati con sonde sottili, quindi raggiunti scavando con un bastone reso appuntito e infine “pescati” alla classica maniera degli scimpanzé. É bene precisare che anche a Goualougo gli scimpanzé si nutrono di miele estratto dagli alveari, seppure non lo estraggono dagli alveari sotterranei, e in buona sostanza gli scimpanzé di queste due aree condividono comportamenti simili che fanno pensare a un'origine comune e a una trasmissione regionale per via culturale, cosa di cui questi animali sono ormai quasi univocamente considerati capaci.

Le implicazioni di queste scoperte sono notevoli, specialmente se si considerano altre osservazioni fatte in questi due luoghi. Lo stesso ramo, ad esempio, è a volte lavorato in due maniere diverse per lato così da servire a due scopi diversi, e in generale queste scimmie ottengono strumenti diversi dallo stesso materiale di partenza, ovvero una particolare pianta che può essere usata per pescare sia termiti che formiche arboricole a seconda della maniera in cui viene preparata. Sembra quindi fuor di dubbio che comprendano la funzione degli strumenti che creano, e che li costruiscano in funzione di essa. Il semplice fatto di utilizzare serie di strumenti inoltre dimostra la loro raffinata capacità di progettare le loro azioni in vista di uno scopo futuro, specie se si considera che strumenti particolarmente pesanti come il primo della sequenza del miele (quello utilizzato come ariete per creare un buco nell'alveare) vengono lasciati vicino all'alveare a svariati metri di altezza per essere riutilizzati in futuro invece che lasciati cadere al suolo come capita agli altri utensili.

L'ipotesi di Sanz e Morgan sul perché queste raffinate tradizioni tecnologiche si trovino solo qui in Africa centrale è che queste siano nate per necessità, dato che nella regione gli scimpanzé convivono con i gorilla in molte aree, e poi tramandate alla maniera in cui tanti altri comportamenti del genere si sono fatti strada tra le popolazioni di scimpanzé in Africa. Inoltre prende sempre più forza l'ipotesi che anche prima dell'emergere della cultura olduvaiana circa 2,5 milioni di anni fa i nostri antenati facessero uso di strumenti complessi, ricavati non dalla pietra ma da altri materiali troppo facilmente deperibili per poter essere ritrovati oggi negli strati archeologici.

Una cosa certa, ad ogni modo, è che queste nuove scoperte rendono ancora più labili le differenze tra gli strumenti dell'uomo e quelli delle scimmie antropomorfe. Il vecchio concetto di Homo faber, che marcava un confine tra noi e i nostri parenti prossimi, si scontra quindi e per l'ennesima volta con Pan, la scimmia che da cinquantanni ci ricorda da dove veniamo.


Riferimenti:

Crickette M. Sanz and David B. Morgan, "Flexible and Persistent. Toolusing Strategies in Honeygathering by Wild Chimpanzees", International Journal of Primatology Volume 30, Number 3, June 2009

Christophe Boesch, Josephine Head and Martha M. Robbins, "Complex tool sets for honey extraction among chimpanzees in Loango National Park, Gabon", Journal of Human Evolution