The most exciting phrase to hear in science, the one that heralds the most discoveries, is not "Eureka!", but "That's funny..." (Isaac Asimov)

sabato 28 novembre 2009

Gioco di squadra, gioco da iena

ride bene chi lo fa insieme

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Un branco di iene o lupi è qualcosa più dell'insieme degli individui che lo compongono, poiché è la collaborazione la chiave del loro successo. Non è strano quindi che i carnivori sociali siano particolarmente portati ad aiutarsi a vicenda, in fondo ne va della loro sopravvivenza; tuttavia pochi studi sperimentali erano stati fatti fino ad oggi per valutare l'efficacia di questa loro capacità di collaborazione, principalmente perché i test riguardanti abilità cognitive complesse sono stati riservati perlopiù a specie dotate di un grande cervello e in particolare ai primati. Proprio per questi motivi Christine Drea della Duke University ha deciso di valutare le capacità di alcune iene maculate (Crocuta crocuta) di risolvere dei compiti che richiessero la collaborazione di due esemplari e i risultati di questo studio sono stati pubblicati recentemente su Animal Behaviour.

L'esperimento è stato sottoposto dalla Drea a coppie di esemplari e richiedeva in breve che queste tirassero contemporaneamente una corda ciascuna, compiendo un movimento molto simile a quello che viene fatto in natura dai membri di questa specie per abbattere una preda, ottenendo in cambio una ricompensa in cibo; è da aggiungere che le iene potevano scegliere tra due piattaforme entrambe presentanti due corde (e relativa ricompensa in cibo) disponibili, questo per evitare il più possibile che l'azione simultanea fosse un risultato del caso. Quello che, parole sue, ha lasciato la ricercatrice decisamente a bocca aperta è l'incredibile velocità con cui la prima coppia, e in seguito tutte le altre (in totale sono state esaminate 13 coppie), ha risolto l'esercizio: meno di due minuti, un tempo molto più breve ad esempio di quello che serve a degli scimpanzé per imparare a svolgere compiti comparabili. Dopo pochi tentativi riusciti, inoltre, le iene evitano di tirare la propria corda se l'altra non è in posizione, e sembrano comprendere quindi il ruolo del proprio partner nell'ottenere il cibo. Curiosamente, nel collaborare per risolvere questi esercizi le iene non emettono suono alcuno mentre in natura la caccia cooperativa è scandita da specifici versi che questi animali emettono per comunicare tra loro.

Andando avanti con l'esperimento si è tentato di stabilire se e in che maniera l'aspetto sociale potesse interferire con questo genere di attività. Dapprima sono state semplicemente aggiunte delle iene “spettatrici”, in presenza delle quali si è notato che animali già esperti risolvevano il problema più velocemente. In una fase successiva si è invece cercato di capire in che maniera il tipo di appaiamenti influisce sul risultato, scoprendo innanzitutto che due iene dominanti lavoravano molto male assieme, e in seguito che un esemplare dominante esperto appaiato a un subordinato inesperto modificava a tal punto il suo comportamento da “rinunciare” temporaneamente alla dominanza, seguendo l'altra iena nel risolvere il compito finché quest'ultima non raggiungeva una certa esperienza e solo allora riprendendo il suo ruolo dominante. A quanto pare in questo genere di compiti una iena non può fare a meno di essere influenzata dai rapporti sociali che ha instaurato.

La dottoressa Drea non sostiene però, è bene precisare, che le iene siano più intelligenti degli scimpanzé o che non vi siano differenze tra le due specie ma, e i risultati del suo studio sembrano puntare in questa direzione, che queste siano molto più “adatte” (o adattate) alla collaborazione sociale intraspecifica di quanto non lo siano gli scimpanzé o altre specie di primati.


Riferimenti:
Christine M. Drea, Allisa N. Carter, “Cooperative problem solving in a social carnivore” Animal Behaviour Volume 78, Issue 4, October 2009, Pages 967-977


lunedì 23 novembre 2009

Amici di lunga data

Dove, come e quando l'uomo inventò il cane

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Se avete comprato LeScienze del mese scorso (ovvero il numero di Agosto 2009 - n.d.A.) e siete rimasti affascinati dall'articolo che riportava la scoperta della provenienza di uno degli animali più conosciuti e amati, il gatto domestico (che è comparso in Medio Oriente circa 10.000 anni fa), non potrete che accogliere con lo stesso interesse uno studio analogo svolto di recente sull'altro inseparabile compagno dell'uomo, il cane. Labrador, cani lupo, chihuahua e barboncini (così come le altre razze canine) appartengono difatti tutti alla stessa sottospecie, Canis lupus familiaris, della specie a cui appartengono i lupi grigi (Canis lupus), i loro più probabili predecessori; hanno perciò avuto tutti la stessa origine, anche se in seguito sono andati incontro a notevoli diversificazioni soprattutto per l'azione dell'uomo che ne ha selezionati i tratti peculiari nelle diverse linee di discendenza. Dove, quando e in che maniera questo sia avvenuto, però, è rimasto a lungo un mistero e ha dato luogo anche in tempi recenti a lunghi dibattiti in seno alla comunità scientifica.

Lo studio, svolto da membri dell'Istituto Reale di Tecnologia a Stoccolma in collaborazione con un team di ricerca cinese, è l'ideale continuazione di quello pubblicato nel 2002 dallo stesso istituto, dove il genetista Peter Savolainen aveva affermato l'origine unica ed est-asiatica del cane, pur non potendo all'epoca essere più preciso di così. Proprio questo studio era stato di recente messo in discussione da un lavoro di Adam Bokyo e Carlos Gustamante, biologi computazionali presso la Cornell University, che analizzando il genoma di cani africani addomesticati avevano dichiarato di avervi trovato una variabilità genetica paragonabile a quella individuata da Savolainen nel 2002: poiché il cane non è stato sicuramente addomesticato in Africa (dove non sono presenti i lupi grigi), questo risultato sembrava indicare l'inaffidabilità di questo parametro.

Questo nuova ricerca però, pubblicata su Molecular Biology and Evolution, porta una nuova e notevole messe di dati e giunge a conclusioni più precise e sicure. Savolainen e i suo collaboratori cinesi hanno difatti esaminato un piccolo tratto di DNA mitocondriale in più di 1500 cani distribuiti tra Asia, Europa e Africa (alcuni erano razze ben definite, altri semplici cani da lavoro presenti in aree rurali oltre a 40 lupi; inoltre, il gruppo di ricercatori ha anche sequenziato l'interno DNA mitocondriale di 8 lupi e 169 cani rappresentanti lo stesso range di diversità del precedente campione. In questi casi il risultato atteso è una maggiore diversità nel luogo in cui una specie ha avuto origine (dovuto alla maggiore diversificazione alla quale quei primi esemplari sono andati incontro), e in particolare un maggior numero di Haplogruppi, “raggruppamenti” di mtDNA simili: questo particolare punto di massima diversità corrisponde, secondo questi dati, a una regione a sud del fiume Yangtze, in Cina. A ulteriore conferma di questo risultato, man mano che ci si allontana da questa regione le differenze tra il DNA mitocondriale dei vari individui diminuiscono fortemente, ad esempio in Europa sono presenti solo 4 Haplogruppi.

Un altro aspetto interessante messo in luce da questo studio è che il pool genico dal quale hanno avuto origine i primi cani era molto più ampio di quanto ci si aspettasse, segno che l'usanza di addomesticare i lupi era diffusa e ben consolidata tanto che erano svariate centinaia di loro a vivere assieme a quegli antichi cinofili. Come tante altre specie addomesticare dall'uomo anche il cane ha svolto un ruolo importante nella nostra Storia, ed è ormai così strettamente inserito nella nostra vita di tutti i giorni da dare l'impressione che sia sempre stato un nostro compagno di viaggio, un viaggio che però, a quanto pare, è cominciato solo 16.000 anni fa.


Riferimenti:


lunedì 9 novembre 2009

La Teoria dell'Evoluzione in 2 minuti

via Pharyngula, segnalo una raccolta di video molto belli che spiegano la teoria dell'evoluzione in due minuti, frutto di un concorso indetto dalla rivista Discover Magazine. Sono tutti in inglese, ma data la loro brevità e semplicità non dovreste avere problemi anche se ne avete solo un'infarinatura.

Qui il sito del concorso, il vincitore è "Evolution in 120 seconds", un piccolo gioiellino dal quale vi consiglio di cominciare (ma non dimenticate gli altri!)

Dagli alberi al bipedismo

Scendere o salire?

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


La lenta camminata dello scimmione che alzandosi su due piedi diventa uomo è una delle rappresentazioni più famose e diffuse dell'evoluzione umana, anche se per chi mastica anche solo un poco la teoria darwiniana è decisamente un'eresia: non esiste difatti una direzione nella storia evolutiva, e i nostri antenati non sono “diventati uomini” ma, più prosaicamente, una delle loro linee di discendenza ha accumulato variazioni che hanno portato alla nostra specie e in particolare alla statura eretta. Questa immagine potrebbe inoltre essere sbagliata anche in un altro senso se come sembra sempre più probabile (e l'ipotesi di per sé è antica come la teoria dell'evoluzione stessa) i nostri antenati non camminavano affatto sulle nocche alla maniera di gorilla e scimpanzé.

La diatriba si è finora polarizzata in due fazioni: chi credeva che le somiglianze nella locomozione di scimpanzé e gorilla (le scimmie antropomorfe viventi più vicine filogeneticamente alla nostra specie), entrambi camminatori sulle nocche, fossero un forte indizio della presenza dello stesso comportamento nei nostri ultimi antenati comuni, e chi invece trovava più probabile che sulla nostra linea evolutiva si posizionassero, prima della comparsa di specie adattate a passare buona parte del loro tempo muovendosi su due piedi a terra, solo primati arboricoli. Alcune scoperte, come ad esempio la presenza in Australopithecus afarensis (che però non è un nostro antenato diretto) di caratteristiche degli arti adatte a una vita parzialmente arborea sembravano dare credito a questa seconda visione, mentre alcuni tratti tipicamente considerati adattamenti alla camminata sulle
nocche ritrovati in molti fossili di ominini estinti raccontavano una storia diversa. Proprio questi ultimi tratti però (o almeno una parte consistente di essi) sono stati recentemente riesaminati e reinterpretati da Tracy Kivell del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig e Daniel Schmitt della Duke University di Durham.

Lo studio, pubblicato di recente su PNAS, mette innanzitutto in evidenza come le locomozioni di scimpanzé e gorilla siano molto meno simili di quanto si pensasse finora. Prendendo in esame il comportamento e le ossa del polso di più di 200 tra scimpanzé, bonobo e gorilla il gruppo di ricerca ha mostrato come le particolari caratteristiche che permettono a scimpanzé e bonobo (sono state trovate rispettivamente nel 96% e nel 76% dei campioni esaminati) di camminare agevolmente sulle nocche siano praticamente assenti nei gorilla (sono state trovate solo nel 6% del campione esaminato). I gorilla devono difatti stendere completamente braccio e polso in quella che Kivell chiama “columnar stance” (ovvero “posizione a colonna”) per diminuire lo stress sulle giunture ed evitare che le dita si pieghino troppo, invece di mantenere il polso flesso come scimpanzé e bonobo che sono dotati di una serie di creste e concavità ossee atte proprio ad evitare questo piegamento eccessivo. Inoltre, non solo la camminata sulle nocche sembra essersi evoluta separatamente e in due maniere diverse nei due generi Pan e Gorilla, ma molte caratteristiche che tra gli scimpanzé e i bonobo servono a rendere più efficiente questo tipo di locomozione si ritrovano tra numerose scimmie arboricole e non tra i gorilla. Da ultimo, i due ricercatori fanno notare come molte di quelle stesse caratteristiche che condividiamo con scimpanzé e gorilla e che si erano sempre pensate come adattamenti alla camminata sulle nocche sono in realtà presenti addirittura in alcune specie di lemuri e quindi sono più probabilmente il residuo di un adattamento alla vita tra gli alberi, piuttosto che al suolo.

Più precisamente, Kivell sostiene che i particolari adattamenti di scimpanzé e bonobo potrebbero essere stati fissati dal processo evolutivo per la necessità di stabilizzare il polso nel passare da un ramo all'altro, un'operazione che richiede una presa salda e sicura. Osservando i resti fossili dei nostri antenati vissuti dopo la divergenza evolutiva col ramo che porterà al genere Pan, la transazione dagli alberi alla savana aperta appare come un processo lungo, che vide un lungo periodo “ibrido” nel quale questi antichi ominini cominciarono a passare sempre più tempo al suolo continuando però ad affidare grossa parte delle proprie chance di sopravvivenza alla protezione offerta dagli alberi: proprio a questo scenario evolutivo sembrerebbe adattarsi perfettamente l'ipotesi “dagli alberi al bipedismo”, che trae nuova forza dallo studio di Kivell e Schmitt. Per quanto questa ipotesi non possa ancora dirsi totalmente provata, e gli stessi autori dello studio si dicono intenzionati a cercare nuove evidenze negli anni a venire, ha probabilmente segnato un punto decisivo in una delle più lunghe diatribe riguardanti l'evoluzione umana.

Riferimenti:

Tracy L. Kivell, Daniel Schmitt, “Independent evolution of knucklewalking in African apes shows that humans did not evolve from a knucklewalking ancestor”, PNAS, Published online before print August 10, 2009, doi: 10.1073/pnas.0901280106