The most exciting phrase to hear in science, the one that heralds the most discoveries, is not "Eureka!", but "That's funny..." (Isaac Asimov)

venerdì 29 ottobre 2010

Sepolture anomale a Bologna

Se vi capita di passare da Bologna nelle prossime settimane o avete la fortuna di viverci andate a dare un'occhiata a questa mostra, credo ne valga la pena



"Vengono esposti scheletri provenienti dal territorio bolognese di epoca romana e altomedievale che attestano pratiche e rituali funerari non convenzionali (mutilazioni, infissione di chiodi nel cadavere, ecc.) rivelando un complesso rapporto dell’uomo con la morte.

Questi rinvenimenti possono essere interpretati alla luce delle diffuse credenze che il morto non fosse “definitivamente morto” e che potesse stabilire un inquietante rapporto con il mondo dei vivi che ha alimentato, in tempi storici, il folklore sui vampiri o revenantes: da qui gli interventi sul cadavere volti ad impedirne il ritorno.


L'inaugurazione è, molto appropriatamente, il 2 novembre alle 20 presso il Museo di Antropologia situato nel dipartimento di Biologia (via Selmi 3), la curatrice mi ha rivelato che per l'occasione ci saranno vino e castagne per tutti i partecipanti, se vi serviva un altro buon motivo per venire (per me già la mostra in sè era sufficiente a farmi fare una sosta a Bologna sulla via di ritorno a Pisa).

lunedì 20 settembre 2010

Elefanti in acido

e altre storie di scienza bizzarra













Ne avevo scritto altrove ma ho pensato di ripescare parte di quella recensione per segnalare anche qui uno dei libri più divertenti e interessanti che ho letto negli ultimi tempi: "Elefanti in acido" di Alex Boese (il titolo originale è per una volta lo stesso: Elephants on acid), uno storico della scienza con base a San Diego che ha deciso di dedicarsi al lato "curioso" della scienza (e non solo, suo è il Museum of Hoaxes). "Elefanti in acido" raccoglie svariati esperimenti che oggi raccoglierebbero facilmente un Ig Nobel, e che si leggono (grazie anche alla bravura di Boese) con un misto di ammirazione, curiosità e in alcuni casi raccapriccio (ma molto più spesso col sorriso sulle labbra). Per sapere degli elefanti citati nel titolo vi invito a comprare il libro, mentre per darvi un'idea di cosa troverete vi riporto qua sotto un breve riassunto (che scrissi in un'altra occasione, vi prego di soprassedere al tono un po' faceto e fintamente misogino - storia lunga da spiegare) di uno degli esperimenti più curiosi.

---------------------------------------

Durante una delle sue lezioni di psicologia sociale sperimentale alla Florida State University Russel Clark, con lo spirito un po' visionario e un po' burlone di tanti psicologi sperimentali, seppe cogliere l'occasione per mettere alla prova un mito e contemporaneamente stabilire (se si vuole prendere per buona una ricerca tutto sommato statisticamente poco solida) una verità ancora oggi messa in dubbio da alcuni retrogradi oscurantisti: le donne rimorchiano facile. Ma andiamo per gradi.

Il professor Clark stava in realtà discutendo un altro articolo descritto nel libro di cui sopra, che dimostrava come i possibili partner diventano più attraenti man mano che si approssima l'orario di chiusura dei locali (ma solo per i single, ovvero per chi deve operare una scelta - con chi provarci? - e vede restringersi il tempo a disposizione), e come capita sempre in questi casi gli scappò un commento riguardo alla necessità tutta maschile di affinare sempre le proprie armi seduttive. Apriti cielo! ecco che alcune giovini studentelle si dicono soprese: altroché, fanno queste, anche noi dobbiamo impegnarci per fare conquiste! come no, replica Clark, anzi dai facciamo che sistemiamo questa cosa una volta per tutte.

Detto fatto, ecco che cinque studentesse e quattro studenti, tutti giovani e di bell'aspetto, cominciano a vagare per il campus facendo una semplice domanda ai membri del sesso opposto: "
Ti ho notato nel campus e ti trovo attraente, vorresti venire a letto con me questa notte?".Nessuna donna ha detto sì, il 75 % degli uomini si è invece dimostrato disponibile (qualcuno chiedendo anche "perché aspettare questa sera?"), e va notato che il 25% che ha risposto negativamente ha sempre addotto una scusa valida (alcuni ad esempio erano sposati).

Non finisce qui peraltro, perché se la domanda cambiava in "Vorresti uscire con me stasera?" i risultati mutavano drasticamente: a questo punto per entrambi i sessi il 50% accettava e il 50% rifiutava (con "vorresti venire nel mio appartamento stasera?" invece i risultati restavano pressocché identici al primo esperimento, 69 a 6). Clark si stupì che bastasse chiedere a una donna di uscire per ottenere una percentuale di successo del 50%, io preferisco notare come basti chiedere a un uomo di fare sesso piuttosto che di uscire per incrementare drasticamente le chance di ottenere un sì.


L'esperimento è stato pubblicato, dopo anni di rifiuti, sul Journal of Psychology & Human Sexuality [2 (1): 39-55] col titolo "Gender differences in Recept
iv
ity to Sexual Offers".


domenica 19 settembre 2010

California 1/n - Antipasto (in effetti si parla molto di cibo)

[Ho deciso due cose: 1) mi rimetto dietro a questo blog 2) ci scriverò anche viaggi e recensioni di film e libri]


Più di una settimana dopo essere atterrato a Verona e in ritardo (che sorpresa) sui tempi che mi ero prefissato mi trovo a cominciare finalmente quello che mi ero riproposto di fare da prima di partire: un diario, o meglio un racconto a puntate, anzi ancora una serie di articoli, insomma facciamo quello che viene del mio viaggio in California (mio si fa per dire, c'erano altre 5 persone con me senza le quali non sarebbe stata la stessa cosa). Non sapendo da dove cominciare copio o meglio omaggio lo scrittore che mi ha dato l'idea, cercando di mettere giù una lista in ordine sparso delle cose che ho visto e fatto. Nelle prossime puntate comincia il racconto (o diario o insomma si è capito).

Ho visto l'oceano prima da fuori e poi da dentro e ho fatto uno dei bagni più tonificanti della mia vita (così a occhio secondo dopo un certo laghetto di quasi un decennio fa). Ho visto hot dog e hamburger di carne kobe, e se sapete cosa vuol dire credo starete facendo la stessa faccia che ho fatto io. Posso ora darvi indicazioni per trovare i migliori tacos del mondo a San Francisco (ho mangiato tacos quell'unica volta nella mia vita ma negherò fino alla morte che possano essere cucinati meglio) e una serie di altri posti dove mangiare ottimamente, e per inciso il cibo messicano in California non è quell'attentato alla pubblica sanità che si trova in Italia.

So perché quello americano è tra i popoli più obesi del mondo: il cibo è delizioso, ma in quella maniera insana per cui quando vogliamo trattarci in maniera speciale mettiamo due dita di nutella sulle gocciole extradark (un esempio su tutti: l'insalata viene per forza con abbondante salsa e pollo fritto o alla meglio grigliato). Altri motivi sono le porzioni sono fuori di testa e il secondo giro quasi sempre gratuito per ogni bevanda nei ristoranti.

Ho finalmente scoperto che SkyMall è una realtà e non una leggenda. Ho seriamente pensato di comprare una replica semovente di C1P8 dotata di riconoscimento vocale e dei suoni originali e sono stato tentato dalla penna-telecamera. Ho incuriosito una simpatica vecchina prendendo appunti su tutte le cianfrusaglie più interessanti e parlandoci un po' ho avuto la prima delle tante testimonianze di una verità assoluta sugli americani: a parte cugino Bubba e il vecchio Dempsy, folkloristici abitanti delle mille cittadine anonime sparse per l'angosciantemente piatto Midwest, quasi tutti si spostano di centinaia di miglia nel corso della vita, finendo a vivere da tutt'altra parte rispetto a dove sono nati e cresciuti. In qualche modo pare che l'America, estesa come un continente e così poco popolata da far pensare che ogni stato debba far storia a sé, sia invece una nazione unita e la parola “americano” abbia un senso tanto quanto la parola “italiano” (non ne ero sicuro prima di partire).

Sono stato in un motel e ci sono pure inaspettatamente ritornato, ho discusso con i proprietari di un ostello e ho dovuto fare un po' di casini tra mail e telefonate per cancellarne un altro insomma tutto questo per dire che ho scoperto il mio inglese essere molto migliore di quanto pensassi (e di quanto dovrebbe, non avendolo io mai studiato). Ho fatto lunghe chiacchierate con, sto facendo i conti ora, 11 autoctoni (e a parte 2 casi sono sempre stati loro ad attaccare bottone)(lo dico subito: 9 erano ragazze) più due italiane (non dirò nulla nemmeno sotto tortura). Per farla breve ho scoperto che la gente in California è amichevole e non aspetterà che sia tu a venire da loro: basterà parlare una lingua straniera e dopo un po' arriverà qualcuno a chiedere di dove siete (per inciso quasi nessuno ci ha scambiati per italiani e per me è una piccola vittoria).

Ho visto sequoie e deserti, grattacieli e casette col divano sulla veranda, palazzoni (di quelli con le scale antincendio su un lato che avete visto nei film) e ville da ricconi, il Golden Gate Bridge e la costa tra Los Angeles e Santa Cruz e insomma ho scoperto che la California è anche una gioia per gli occhi. Ho scoperto che Las Vegas è ancor di più una gioia per gli occhi, ma dietro la parete di cartone c'è poco più di una massa di gente pronta a spillarti soldi. Una cosa che però so di sicuro è che Las Vegas merita lo stesso la vostra visita, e ci si diverte oltre ogni aspettativa (e poi non ci si vuole tornare mai più, o perlomeno non molto spesso).

Ho assaggiato la pizza americana, che si chiama pizza ma non dovrebbe, e tutta una serie di cibi pensati o quantomeno tramandanti unicamente per i viaggi in macchina; in America, dove la gente fa miglia e miglia in macchina in continuazione, questo ha incredibilmente un senso (in Italia al massimo ci sono i grisbì, ma ho il sospetto che siano un cibo “da viaggio” solo per un mio amico, e non per un'intera nazione come ad esempio l'indimenticabile Beef Jerky).

Ho evitato McDonald, piegandomi ai fast food “di catena” solo per Subway e Popeye's e in qualche modo ne è valsa la pena (soprattutto per il secondo che offre cucina cajun), ma ho avuto la conferma da altri che gli hamburger di McDonald hanno lo stesso sapore in America e in Italia (e questo apre inquietanti scenari dato che qualsiasi altra carne di manzo che ho assaggiato era ben diversa nel sapore da quella italiana). Ho mangiato tanta, troppa carne e mi sono trovato a desiderare sinceramente una semplice insalata con un filo d'olio buono (non ho visto olio extravergine d'oliva in nessun posto per tutta la durata della vacanza) e sale.

Ho scoperto che i locali in California chiudono alle 2, anche quelli che non diresti, e smettono di servire alcool all'1.30. Fidatevi, non è una buona idea (ma si riesce a uscire e divertirsi lo stesso). Ho chiesto indicazioni a baristi e tassisti che sono diventati i miei migliori amici per quei dieci minuti di chiacchierata, e ho scoperto che sono ben felici di aiutarvi anche se non gli lasciate il ventone come nei film (anzi, un barista ha premiato la mia amichevolezza versandomi un Kentucky Bourbon più abbondante del dovuto sostituendo il bicchiere che mi aveva servito inizialmente con uno più grande). Ho scoperto una manciata di birre americane davvero buone e un po' ne ho nostalgia (segnatevele: Red Hook, Blue Moon, Napa Valley Pale Ale, Miller Genuine Draft).

Tanto per chiudere col cibo, infine, ora invidio pesantemente gli americani per le colazioni che fanno: potrà essere poco salutare, ma svegliarsi dall'altra parte dell'Atlantico è decisamente più gustoso (e non sto parlando del bacon, che ho assaggiato una sola volta a colazione, ma delle cose dolci: pancake e french toast su tutto il resto).

Insomma, una vacanza legend – wait for it – dary!, proprio come me l'aspettavo.

Continua...

martedì 11 maggio 2010

Ai cebi piace variare

non si vive solo di [inserire il tuo cibo preferito]

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia

Una caratteristica particolarmente diffusa all'interno dell'ordine dei primati è la varietà della alimentazione, anche all'interno della dieta di molte specie che fanno proprio di questa particolare flessibilità uno dei loro punti di forza. Specie onnivore come la nostra sono difatti tendenzialmente suscettibili alla monotonia della dieta e necessitano di assumere alimenti di vario tipo, senza concentrarsi in maniera esclusiva su alcuni. La domanda che un gruppo di ricerca dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR di Roma si è posto è se anche altre specie oltre alla nostra cerchino attivamente la varietà nella dieta, preferendola alla possibilità di consumare solo il proprio cibo preferito; i risultati sono stati poi pubblicati sulla rivista Behavioural Processes. Soggetti di questo studio un gruppo di cebi dai cornetti (Cebus apella) che abitano il laboratorio di ricerca romano ormai da anni, e dei quali si conoscono quindi alla perfezione preferenze ed idiosincrasie alimentari, si tratta inoltre di una specie onnivora molto suscettibile alla monotonia alimentare, particolarmente adatta quindi per questo genere di esperimenti.

Tutti i soggetti sperimentali hanno imparato da tempo a utilizzare i token, oggetti di per sé senza valore che possono essere scambiati con altri oggetti o porzioni di cibo durante i vari esperimenti. In questo caso si proponeva loro la scelta tra un token “monotonia”, che consentiva l'accesso sempre e solo a una porzione del proprio cibo preferito (condizione A), e un token “varietà” che permetteva di scegliere tra una serie variegata di dieci cibi diversi, più precisamente tra una serie di cibi mediamente apprezzati (condizione B) in una prima fase dell'esperimento o una serie di cibi poco apprezzati in un secondo momento (condizione C). I risultati sono stati quelli attesi: in generale i cebi hanno preferito le due condizioni di “varietà” contro la condizione di “monotonia”, scegliendo un maggior numero di volte B o C contro A. Un altro risultato atteso e puntualmente osservato è stata la maggiore preferenza accordata a B contro A rispetto a C contro A, ma in ogni caso il cibo scelto tra il ventaglio di quelli resi disponibili dal token “varietà” non era costantemente il preferito tra i dieci, a dimostrazione che i cebi ricercavano proprio la varietà e non sceglievano il token per puro caso.

É interessante notare che anche dopo aver concluso l'esperimento le preferenze alimentari dei soggetti sperimentali non sono cambiate sensibilmente, a indicare come durante l'esperimento stesso i cebi non si comportassero guidati da un nuovo gusto in fatto di cibo ma scegliessero invece cibi meno appetibili, per loro, di altri immediatamente disponibili. Cercare la varietà nell'ambiente ha sicuramente numerosi vantaggi da un punto di vista evolutivo, vantaggi che superano di gran lunga i rischi associati: basti pensare alla possibilità di espandere la propria dieta per far fronte a periodi in cui i cibi abituali scarseggino, o a quella di scoprire nuove fonti di cibo più nutrienti e di facile accesso. Non c'è da stupirsi, quindi, se i cebi (ma non solo) condividono con noi questa necessità di una dieta varia, sia che tale somiglianze siano omologie segno di una tipologia di alimentazione profondamente radicata nella storia naturale dell'uomo e dei suoi simili, come suggeriscono gli autori e come sembra probabile, sia che si tratti di convergenze evolutive, percorsi diversi arrivati a soluzioni simili per sopravvivere più facilmente.



Riferimenti:

Addessi E, Mancini A, Crescimbene L, Ariely D, Visalberghi E. "How to spend a token? Trade-offs between food variety and food preference in tufted capuchin monkeys (Cebus apella)." Behavioural Processes. 2010 Mar;83(3):267-75. Epub 2009 Dec 21.

venerdì 16 aprile 2010

Australopithecus sediba, una nuova australopitecina sudafricana

Non chiamatelo anello mancante!

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Circa un secolo fa una terra, il Sudafrica, particolarmente ricca di minerali cominciò a restituire ai cercatori anche preziosi fossili di antichi ominidi (basta pensare all'Australopithecus africanus di Raymond Dart scoperto negli anni '20). Molti di questi ritrovamenti erano dovuti proprio all'attività dei minatori che, sventrando il terreno per ricavarne minerali, finivano per portare in superficie frammenti di ossa curiose, indizi sulla direzione da seguire per scoprire i segreti dell'evoluzione del genere uomano e dei suoi parenti evolutivi. É stato proprio osservando scarti di estrazione vecchi di un secolo che il 15 Agosto del 2008 Matthew Berger, figlio giovanissimo del paleantropologo Lee Berger, ha scoperto una clavicola appartenente a un membro di una nuova e interessante specie: Australopithecus sediba (sediba significa “fontana” o “sorgente” in Sotho, una delle lingue africane). Dopo due anni di scavi il gruppo di ricercatori guidato da Lee Berger dell'Università del Witwaterstrand ha finalmente pubblicato su Science i risultati dell'analisi di due esemplari, un giovane maschio e una femmina adulta, ritrovati nelle vicinanze e rimasti intrappolati in una grotta sotterranea fino al momento della loro morte, avvenuta circa 2 milioni di anni fa.

Le caratteristiche di questa australopitecina vissuta in uno dei momenti più rilevanti (dal nostro punto di vista antropocentrico) della storia evolutiva, ovvero quello in cui compaiono le prime specie di Homo, sono di notevole interesse e potrebbero spingere addirittura a revisionare l'interpretazione di Homo habilis e Homo rudolfensis, o perlomeno questo è ciò che gli autori dello studio auspicano e suggeriscono, pur con la dovuta cautela. La prima cosa da notare è che Australopithecus sediba somiglia in maniera notevole ad Australopithecus africanus, vissuto fino a circa mezzo milione di anni prima, per buona parte dello scheletro postcranico, dalle proporzioni degli arti alla taglia corporea, e per quanto riguarda il ridotto volume cranico (di circa 420 cc in sediba); si differenzia quindi parecchio dai parantropi vissuti nello stesso periodo e, assieme ad Australopithecus garhi, è quindi l'unica specie di questo genere di cui abbiamo resti databili a questo intorno di tempo, e qui entrano in gioco Homo habilis e Homo rudolfensis. Queste due specie sono considerate le prime rappresentanti del genere umano e sono comparse molto prima di Australopithecus sediba (circa 2,4 milioni di anni fa rudolfensis e poco dopo habilis), subito dopo la scomparsa di Australopithecus africanus), mettendolo così fuori gioco per quanto riguarda una sua eventuale posizione tra gli antenati dell'uomo e “relegandolo” al ruolo di semplice australopitecina; tuttavia Berger e colleghi portano all'attenzione in questo articolo proprio una serie di caratteristiche che potrebbero ribaltare la situazione.

Comparando Australopithecus sediba a Homo ergaster, difatti, si notano somiglianze sia nella struttura del viso e nella ridotta dimensione dei denti che nei fianchi, dove entrambe le specie mostrano adattamenti a una camminata in posizione eretta più efficiente; somiglianze assenti in Homo habilis e Homo rudolfensis che però, è bene ricordarlo, presentano una capacità cranica molto maggiore segno, secondo l'interpretazione più radicata nella comunità scientifica, della loro appartenenza al genere umano. L'ipotesi dei ricercatori è in realtà duplice: Australopithecus sediba potrebbe essere un diretto antenato di Homo ergaster o, alternativamente, un sister group del diretto antenato, originatosi anch'esso da Australopithecus africanus. Secondo questa interpretazione l'accrescimento della capacità cranica non sarebbe un segno distintivo della linea evolutiva che ha portato al genere umano, e ne sarebbe invece uno sviluppo più tardo di quanto si pensasse. Una spiegazione alternativa non direttamente esplicitata dagli autori dello studio è che queste caratteristiche siano frutto di semplice evoluzione convergente e, quantomeno per la struttura del bacino che può facilmente essere il frutto di un adattamento allo stesso ambiente di Homo ergaster, questa potrebbe effettivamente essere l'interpretazione più economica.

Ad ogni modo il dibattito non si è fatto attendere ed entrambe le posizioni hanno i loro sostenitori, degni di nota ad esempio Donald Johanson che si rammarica addirittura che la specie non sia stata inserita nel genere Homo e Tim White che la considera solo un esponente tardivo di Australopithecus africanus (e fa notare come il fatto che l'individuo che fa da olotipo sia relativamente giovane possa aver distorto alcune sue caratteristiche salienti). Quello che è sicuro è che questa nuova specie aiuterà a comprendere meglio molti frammenti fossili raccolti in altri siti che ancora non si è riusciti ad assegnare a una specie, mentre per quanto riguarda il posto di Australopithecus sediba ci sarà da attendere: con materiale di almeno altri due individui ancora da pubblicare ulteriori soprese potrebbero essere in arrivo.

Questo il video della ricostruzione 3d del cranio della nuova specie.


Riferimenti:
Lee R. Berger, Darryl J. de Ruiter, Steven E. Churchill, Peter Schmid, Kristian J. Carlson, Paul H. G. M. Dirks, Job M. Kibii. Australopithecus sediba: A New Species of Homo-Like Australopith from South Africa, Science 9 April 2010: Vol. 328. no. 5975, pp. 195 – 204 DOI: 10.1126/science.1184944

Paul H. G. M. Dirks, Job M. Kibii, Brian F. Kuhn, Christine Steininger, Steven E. Churchill, Jan D. Kramers, Robyn Pickering, Daniel L. Farber, Anne-Sophie Mériaux, Andy I. R. Herries, Geoffrey C. P. King, Lee R. Berger. Geological Setting and Age of Australopithecus sediba from Southern Africa, Science 9 April 2010: Vol. 328. no. 5975, pp. 205 - 208 DOI: 10.1126/science.1184950

sabato 13 marzo 2010

Il genoma dei popoli sudafricani

ma dove vai, se nel database il boscimano non ce l'hai?

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Da quando è comparsa sul pianeta la nostra specie ha passato in Africa metà del suo tempo: per questo le popolazioni originarie di questo continente presentano una variabilità genetica enorme, praticamente identica per quantità a quella di tutte le altre popolazioni mondiali messe assieme, è stato difatti un piccolo sottoinsieme degli africani a dare origine a queste ultime nei millenni. Nonostante questo sia risaputo da tempo finora la mappatura dei genomi aveva scarsamente interessato le popolazioni africane, e in particolare le più “antiche” tra loro: i boscimani, tra i quali sopravvive peraltro anche lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori, un altro elemento tipico delle origini della nostra specie. Stephan Schuster, assieme a un team internazionale di scienziati di altissimo livello, ha raccolto dati proprio sul genoma di questi popoli e li ha poi pubblicati su Nature.

In totale quattro boscimani hanno donato il proprio genoma alla scienza: !Gubi, G/aq’o, D#kgao e !Aýˆ (se non sapete come pronunciare questi nomi non preoccupatevi, le lingue in cui vengono pronunciati di solito sono tra le più antiche del mondo e contengono suoni peculiari, detti clicks, che non sono presenti in nessun altro idioma) e sono tutti membri molto anziani delle loro tribù scelti per idioma parlato, locazione geografica e aplogruppi presenti nel cromosoma Y. A questi va aggiunto Desmond Tutu, un vescovo i cui antenati rimandano i due più grandi gruppi sudafricani del ceppo Bantu: i Tswama i i Nguni. I genomi di questi cinque individui sono stati comparati con la sequenza di riferimento in cerca di polimorfismi dei singoli nucleotidi, trovando ciò che ci si aspettava, ovvero la conferma della grande variabilità genetica africana e sudafricana in particolare (attestata dall'alto numero di differenze dei singoli nucleotidi), ma anche qualche dato interessante che non si era preventivato.

In generale molte delle peculiarità del loro genoma si spiegano col loro peculiare stile di vita: quello di cacciatori raccoglitori è un “mestiere” che solo i boscimani e pochi altri popoli al mondo fanno ancora, e porta con sé alcune necessità ben riflesse negli adattamenti peculiari di queste genti. Esempi ne sono varianti che garantiscono migliori abilità nello sprint o nel riconoscere certi sapori amari nelle piante (spesso indizi importanti della loro tossicità). Tutte le differenze nucleotidiche sono state comparate anche con i nucleotidi omologhi presenti nel genoma dello scimpanzé, per valutare quanta di questa differenza si fosse originata dopo la differenziazione delle altre etnie da quelle sudafricane; a differenza di quanto ci si aspettasse, il genoma dei popoli più antichi della nostra specie non riflette i nostri antenati molto meglio del nostro, ma mostra invece come anche la loro linea abbia accumulato parecchie variazioni nei millenni.

Alcune varianti nucleotidiche trovate sono però più interessanti ancora: la variante che negli europei è associata alla sindrome di Wolman (che impedisce di accumulare adeguatamente le riserve di grasso e uccide in giovane età) è presente ad esempio in uno dei boscimani, che nonostante l'età avanzata è però decisamente in ottima salute. Proprio per questo è tanto importante estendere la copertura del progetto genoma, che ad oggi possiede dati relativi quasi esclusivamente a genomi di individui europei, al maggior numero di popoli possibile: solo conoscendo approfonditamente la variabilità interna alla nostra specie la ricerca medica potrà beneficiare della potenzialmente utilissima messe di dati proveniente da questa linea di ricerca.


Riferimenti:

Stephan C. Schuster et alii, “Complete Khoisan and Bantu genomes from southern Africa”, Nature 463, 943-947 doi:10.1038/nature08795

mercoledì 10 marzo 2010

Ulteriori evidenze di cultura tra gli scimpanzé

Vecchi strumenti, nuove soluzioni

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia

Le informazioni su come il nostro organismo debba “costruirsi” sono contenute nel nostro genoma, ma cosa poi faccia in vita dipende anche da un altro tipo di informazioni: quelle che ci vengono tramandate in vita dagli altri membri della nostra specie ovvero, per dirlo con una parola sola, dalla cultura. Questa definizione “in senso lato” di cultura come trasmissione non genetica di informazioni potrebbe stare un po' stretta a chi è abituato ad associare il termine alle vette più alte della produzione intellettuale umana, ma da un punto di vista strettamente naturalistico ha il pregio di essere concisa ed efficace e, cosa ancora più interessante, permette di impostare un discorso evoluzionistico: la cultura in questo senso diventa un mezzo utilissimo che gli esemplari molte specie utilizzano per scambiarsi informazioni utili alla sopravvivenza attraverso le rapide vie orizzontali dell'apprendimento e dell'imitazione, invece che aspettare il lento procedere delle mutazioni genetiche che operano le loro modifiche solo generazione dopo generazione.

Da quando questa visione “semplificata” di cultura ha preso piede tra gli studiosi del comportamento animale numerose altre specie oltre alla nostra hanno dimostrato di affidare una buona parte delle loro chances di sopravvivenza a questa impagabile capacità, e quelle che ne fanno l'uso più variegato sono quelle che somigliano di più all'uomo: le scimmie antropomorfe. Gli scimpanzé in particolare sono un interessante esempio di questa grande capacità culturale dei primati superiori, dato che le varie popolazioni africane variano molto per le tradizioni esibite, in particolare per quanto riguarda l'utilizzo di strumenti. Tecniche e strumenti esibiti da ognuna di esse non sono difatti ubiqui, e molte di loro ne hanno di esclusivi; esattamente quello che ci si aspetterebbe se fossero stati scoperti una volta e poi trasmessi, invece che far parte del repertorio “naturale” della specie. Nonostante l'ormai notevole messe di dati a disposizione, però, ancora non c'è consenso totale sull'opportunità di considerare “culture” i diversi insiemi di tecniche e strumenti, e i critici invocano solitamente le altre possibili cause di tali diversità: ecologiche (es. nella tal zona non si schiacciano le noci con le pietre perché non ci sono le noci) o legate alla differenziazione in tre diverse sottospecie degli scimpanzé africani. Per questi motivi il recente lavoro, pubblicato su Current Biology, di Zuberbühler e colleghi dell'università di scozzese St. Andrews, nel quale sono state comparate le popolazioni di scimpanzé residenti nelle foreste di Kibale e Budongo in Uganda è particolarmente utile per dirimere tali questioni.

Per evitare le critiche classiche di cui si è detto sopra il gruppo di ricercatori ha analizzato due popolazioni appartenenti alla stessa sottospecie (Pan troglodytes schweinfurthii) e ha fornito ad entrambe lo stesso stimolo: del miele contenuto in buchi praticati su alcuni ceppi, che richiedevano pertanto di essere approcciati con un qualche tipo di strumento. Mentre gli scimpanzé di Kibale, però, sono già abitualmente usi ad estrarre il miele dagli alveari tramite di bastoncini, quelli di Budongo non hanno mai mostrato nessuna competenza tecnologica di questo tipo, anche se fanno largo e variegato uso di spugne ottenute da foglie masticate, principalmente per recuperare l'acqua dalle cavità degli alberi.

Come ci si aspettava solamente gli scimpanzé di Kibale hanno prontamente imparato ad estrarre il miele con dei bastoncini, la tattica sicuramente più efficace che si potesse applicare, ma quello che davvero ha colpito gli studiosi è il fatto che gli scimpanzé della foresta di Budongo abbiano anch'essi cercato di estrarre il miele facendo ricorso alla strumentazione che già possedevano: preparate delle spugne come se dovessero recuperare dell'acqua hanno provato poi a utilizzarle per estrarre il miele, ottenendo peraltro qualche risultato. Oltre a provare la necessità per uno scimpanzé che una certa tecnica faccia parte del proprio bagaglio culturale per poterla utilizzare, quello che era il vero scopo dell'esperimento, il lavoro di Zuberbühler e colleghi ha quindi permesso anche di osservare quanto sia importante il proprio retaggio culturale queste antropomorfe, che vi fanno affidamento ogni volta che si presenta loro un nuovo problema da risolvere.


Riferimenti:

Thibaud Gruber, Martin N. Muller, Pontus Strimling, Richard Wrangham, Klaus Zuberbühler, “Wild Chimpanzees Rely on Cultural Knowledge to Solve an Experimental Honey Acquisition Task”, Current Biology - 17 November 2009 (Vol. 19, Issue 21, pp. 1806-1810)

domenica 28 febbraio 2010

Da dove viene, e che strada percorre, il cervello


volendo ci potreste stampare un gran bel poster (da appendere sopra al letto di vostro figlio se volete farne un futuro brain geek), ad ogni modo questo fumetto è non solo una rappresentazione semplice ma efficace di come avvenga lo sviluppo del nostro cervello, ma anche il vincitore dell'edizione 2009 (e siamo alla settima) dell'International Science & Engineering Visualization Challenge, indetto da Science Magazine e dalla National Science Foundation, seguendo il link troverete anche gli altri premiati.

Cose che forse vi siete persi


Da un po' di tempo mi frulla per la testa l'idea di istituire un post periodico di segnalazioni dato che a) non ho tempo di scrivere di tutto quello che trovo in giro o succede b) c'è gente che scrive meglio di me o che comunque vale la pena leggere c) è bene che la propria lista dei bookmark sia bella folta, e i consigli di lettura sono una cosa che ho sempre considerato vitale per rinfoltirla.

Ad ogni modo, non ho ancora deciso la cadenza (forse bisettimanale?) ma voglio cominciare con una bella infornata di tutto ciò che ho trovato di adatto a questa rubrica in questi ultimi tempi (ci sono quindi anche pezzi un po' vecchiotti)


- Interessante video di Ben Goldacre, autore di un recente libro che è decisamente nella mia wishlist e di questo ottimo blog, sull'effetto Placebo. Mi sono piaciuti molto lo stile molto chiaro (a prova di fanboy dell'olismo) e la riflessione finale sull'opportunità o meno di sfruttare consapevolmente l'effetto placebo come trattamento (la risposta è ovviamente che no, non si dovrebbe).

- "You must navigate a nanobot through a 3D environment of blood vessels and connective tissue in an attempt to save an ailing patient by retraining her non-functional immune cells. Along the way, you will learn about the biological processes that enable macrophages and neutrophils – white blood cells – to detect and fight infections" ovvero ImmuneAttack, il videogioco completamente gratuito in cui "Siamo fatti così" si mescola con "Descent FreeSpace".

- su Damninteresting.com, un sito che temo abbia questo come ultimo pezzo più di un anno fa, ecco a voi la Sfortunata storia sessuale della banana (il frutto!). Sapevate che tutte le banane che mangiate sono cloni identici ottenuti per un fortuito incrocio di due specie diverse? i dettagli (e il perché questa delizia è in serio pericolo) seguendo il link.

- Su DiscoverMagazine ecco una galleria di immagini da togliere il fiato: sono le vincitrici di un concorso indetto da questa rivista per premiare le 11 migliori fotografie astronomiche* (più altre gallerie raggiungibili dallo stesso link).

- Un blog culinario e scientifico assieme? più o meno quello che è Not So Humble Pie, dolcetti a tema nerd/scientifico

- Se non vi impressionate di fronte agli animali impagliati e avete un po' di senso dell'umorismo ecco Crappy Taxydermy, un blog che raccoglie immagini decisamente fuori dal comune sull'argomento

e mi fermo qui, per ora

p.s. la vignetta è una delle migliori di xkcd


*grazie all'anonimo commentatore per avermi segnalato una svista delle più subdole (avevo scritto astrologiche)

sabato 27 febbraio 2010

Le differenze tra bonobo e scimpanzé

Bambinoni per sempre

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


L'ultimo antenato comune a scimpanzé (Pan troglodytes) e bonobo (Pan paniscus) è vissuto circa 2 milioni di anni fa e da allora queste due antropomorfe sono diventate molto diverse; in particolare, rispetto allo scimpanzé il bonobo è più gracile, il suo cranio presenta tratti pedomorfici (ovvero il mantenersi in età adulta di alcune caratteristiche infantili) e i gruppi di individui presentano una tolleranza sociale molto più marcata (favorita probabilmente anche dai frequenti rapporti sessuali non riproduttivi, un'altra caratteristica per cui queste antropomorfe sono famose). C'era da aspettarsi un legame le caratteristiche fisiche e mentali peculiari dei bonobo, e in un recente articolo pubblicato su Current Biology da Victoria Wobber, Richard Wrangham e Brian Hare vengono riportati alcuni esperimenti interessanti in proposito.

Partendo dalla constatazione che i bonobo sviluppano più lentamente rispetto agli scimpanzé caratteristiche fisiche come la crescita del cranio, gli autori dello studio hanno provato a vedere se questo accada anche nel caso anche di caratteristiche comportamentali come la tolleranza sociale e la condivisione del cibo: i bonobo sono scimpanzé a “sviluppo lento”? in un certo senso (ovviamente sono una specie a parte e non una “versione” degli scimpanzé) questo studio sembra dirci questo, o meglio ci offre indizi sul percorso evolutivo di queste due specie. Un confronto del genere tra scimpanzé e bonobo potrebbe peraltro, e questo è uno dei motivi che hanno spinto gli autori dello studio a compiere questi esperimenti, dirci qualcosa anche di come la nostra specie ha evoluto le sue peculiarità sociali.

Nel primo esperimento i ricercatori hanno valutato quanto coppie di scimpanzé o di bonobo di varie età (i due individui nella coppia erano però sempre della stessa età) erano propensi a condividere il cibo: come c'era da aspettarsi gli scimpanzé, che pure da giovani sono molto tolleranti, diventano sempre più aggressivi e “gelosi” del pasto man mano che crescono, al contrario i bonobo non sembrano cambiare nel tempo e non hanno mai problemi a mangiare assieme a un altro bonobo. Un secondo esperimento, nel quale si è valutata la capacità di inibire la risposta a uno stimolo sociale, ha poi permesso a Wrangham e colleghi di giustificare la loro interpretazione della differenza comportamentale come risultato di un diverso sviluppo. In questo secondo compito le antropomorfe dovevano chiedere cibo a degli sperimentatori, ma solo ai due che possedevano effettivamente la ricompensa dei tre che gli si presentavano davanti; le scimmie vedevano chi aveva il premio, ma per ottenerlo dovevano inibire la propensione a toccare le mani di tutti e tre gli sperimentatori. Il test, di per sé molto semplice, è stato fallito solo dai bonobo non ancora svezzati, mostrando come in questa specie compaiano solo dopo qualche anno abilità padroneggiate da scimpanzé anche molto giovani.

Tuttavia questo secondo test si è rivelato troppo semplice, così che per testare più a fondo l'ipotesi gli autori ne hanno ideato un terzo. In questo caso gli sperimentatori erano due e mentre uno di loro premiava sempre il soggetto sperimentale che gli chiedesse il cibo, l'altro non lo faceva mai. Dopo aver imparato quale dei due sperimentatori fosse quello “buono” (compito nel quale bonobo e scimpanzé non hanno mostrato differenze) i loro ruoli si invertivano e alla scimmia toccava in un certo senso “ricominciare da capo”, questa volta però con la difficoltà aggiuntiva di dover inibire la tendenza a chiedere il cibo a chi precedentemente lo elargiva senza problemi. Dopo svariati testi con numerosi soggetti un risultato è apparso chiaro ai ricercatori: i bonobo sono in generale molto meno bravi in questo compito, e in particolare all'interno della specie gli individui più giovani fanno molta più fatica di quelli adulti.

Victoria Wobber, una delle autrici, è convinta che questa sia la strada per comprendere l'evoluzione della socialità umana. Nella nostra specie, difatti, lo sviluppo sia fisico che sociale è particolarmente lento, e proprio questa caratteristica è stata più volte considerata la chiave della nostra ricca vita sociale. Nei piani futuri della ricercatrice ci sono ulteriori studi che comparino anche gli esseri umani a scimpanzé e bonobo, non resta che aspettare e vedere se le sue previsioni si riveleranno azzeccate.


Riferimenti:

Victoria Wobber, Richard Wrangham, and Brian Hare “Bonobos Exhibit Delayed Development of Social Behavior and Cognition Relative to Chimpanzees” Current Biology Volume 20, Issue 3: 226-230



lunedì 8 febbraio 2010

La rapida evoluzione del cromosoma Y

Essere uomini un tempo

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Di tutti e 46 i cromosomi posseduti dalla nostra specie due soli, in pratica, sono conosciuti al di fuori della cerchia di specialisti e appassionati di biologia: i cromosomi sessuali X e Y. A differenza di tutti gli altri questi cromosomi, che determinano il sesso dell'individuo, non formano una coppia di omologhi (gli altri 22 cromosomi sono invece presenti in due copie omologhe per nucleo, una proveniente dalla madre e una dal padre, e sono detti autosomici) ma differiscono radicalmente l'uno dall'altro e non si ricombinano tra loro durante il crossing over (tranne alcuni piccoli segmenti “pseudo-omologhi”). Il motivo di questa apparente stranezza sta nell'isolamento nel quale il cromosoma Y è entrato da quando ha cominciato a differenziarsi dall'X, isolamento durante il quale Y ha perso buona parte dei suoi geni tanto che in molti hanno addirittura profetizzato una sua futura scomparsa (o perlomeno una sua perdita totale di funzionalità). Per quanto si intuisse che tali preoccupazioni fossero esagerate, l'opinione corrente tra gli scienziati era fino a poche settimane fa quella che Y fosse un cromosoma “stagnante” dal punto di vista evolutivo, che cioè durante la sua storia si fosse limitato a perdere lentamente pezzi di sé. Lo studio svolto presso il Witehead Institute del MIT a Washington da Page, Hughes e colleghi e pubblicato su Nature ribalta però queste convinzioni, e in un certo senso “riabilita” questo cromosoma.

Se lo scenario “classico” fosse effettivamente corretto ci si dovrebbe aspettare tra i cromosomi Y di uomo e scimpanzé una somiglianza perlomeno identica, se non maggiore, di quella presente tra le restanti parti del genoma. L'analisi comparata delle parti non ricombinanti dei due cromosomi Y (ovvero delle parti “unicamente maschili”, o MSY), oggetto di questo studio, ha mostrato invece una differenza incredibile, dell'ordine del 30% (ricordiamo che i genomi di uomo e scimpanzé si differenziano tra loro solo del 2% circa), segno che nei 6-7 milioni di anni passati dall'ultimo antenato comune delle due specie questo cromosoma si è differenziato molto più velocemente di tutti gli altri. In particolare la porzione del cromosoma differenziatasi più velocemente è quella responsabile della produzione dello sperma, ma più in generale è il cromosoma degli scimpanzé ad aver subito maggiori rimodellamenti rispetto a quello dell'antenato comune, perdendo molti più geni rispetto a quello dell'uomo e acquistando molte sequenze palindrome in più. Proprio queste sequenze palindrome, nelle quali la seconda metà rispecchia la prima in maniera complementare, hanno portato alle notevoli differenze strutturali tra i due cromosomi.

Una parte dell'ipotesi che gli autori propongono per spiegare questa straordinaria differenziazione dei cromosomi Y di umani e scimpanzé sta nella particolare pressione selettiva che ha portato gli scimpanzé ad avere testicoli sempre più grandi per far fronte alla notevole competizione spermatica presente in questa specie; tra i nostri “cugini”, difatti, la battaglia più dura per la paternità dei nascituri non si svolge tra gli individui (tipicamente ogni femmina fertile si accoppia con più di un individuo durante ogni estro) ma tra gli spermatozoi di individui rivali all'interno dell'utero femminile: per questo produrne in numero maggiore o di migliore qualità assicura un vantaggio riproduttivo. Oltre a questo la particolare condizione del cromosoma Y, che non può ricombinarsi col suo “perduto omologo” X (se non per una piccola porzione), aggiunge un altro pezzo a questo affascinante puzzle: ogni singola mutazione vantaggiosa per l'individuo su di esso (e si tratta di mutazioni particolarmente utili, come abbiamo visto) porterà tutto il cromosoma a essere maggiormente duplicato poiché verrà visto dalla selezione naturale come un'entità unica, favorendo così la diffusione tra le generazioni future di tutte le ulteriori mutazioni (non letali ovviamente) comparse in quella particolare copia. Una storia, quella di questo cromosoma, molto più intrigante di quanto non si pensasse.


Riferimenti:

Jennifer F. Hughes, David C. Page et al. “Chimpanzee and human Y chromosomes are remarkably divergent in structure and gene content”, Nature, published online 13 January 2010

sabato 16 gennaio 2010

Verona, Arte e Cervello

InfinitaMente e Alchimie dell'Arte

Via Galileonet (1 e 2) segnalo due appuntamenti veronesi interessanti in particolare per chi si appassiona a Mente e Cervello, ma che potrebbero risvegliare l'interesse anche di molti profani.

InfinitaMente è un festival di Arti e Scienze giunto alla sua seconda edizione dedicato al Cervello e alla Coscienza, che si terrà dal 28 al 31 Gennaio e che prevede ben 35 conferenze, tra gli altri: Edoardo Boncinelli del San Raffaele di Milano, Paolo Legrenzi, Mario Allegri, Gianfranco Biondi ed Emanuele Severino. Tra i grandi nomi "ospiti" anche Paolo Conte (parla delle "follie dell'arte" e potrebbe uscirne anche qualcosa di buono, a me lui piace come artista e chissà).

Il programma sembra molto vario ma (a parte la prima giornata dedicata a (???) Leonardo da Vinci decisamente "brain geek", ma ve lo lascio scoprire sul sito del festival.

sul sito del comune di Verona trovate qualche altra informazione utile, in particolare salta all'occhio la proiezione di tutti gli episodi della prima serie di "Ai confini della realtà" ("the Twilight Zone") di Rod Serling come evento collaterale alle conferenze (e non è l'unico).


Alchimie dell'Arte apre oggi e dura fino al 31 Gennaio (quindi volendo potete mettere assieme le due cose se venite da fuori Verona come me) e mette in mostra oltre 400 opere di 43 artisti diversi accumunati da un particolare: tutti quanti erano sotto cura psichiatrica quando hanno dipinto i quadri (immagino che molti lo siano tuttora peraltro). Il compito di allestire questa insolita esposizione è stato affidato a Daniela Rosi dell’Osservatorio di Outsider Art dell’Accademia di Belle Arti di Verona, che ha letteralmente pescato questi quadri dalle "collezioni private" di neurologi e psichiatri, che spesso utilizzano delle forme d'arte come terapia. La curatrice ci tiene a precisare che il criterio di selezione delle opere è stato puramente artistico e che “Si tratta delle varie manifestazioni del talento artistico e non di altro. E’ difficile rinvenire l’elemento patologico nei quadri di questi artisti e anche dove c’è la reiterazione ossessiva di un elemento sembrerebbe più ovvio parlare di esercizio di stile piuttosto che di mania”; sia quel che sia, sono sicuramente opere molto diverse da quelle che si possono trovare in un atelier convenzionale.

venerdì 15 gennaio 2010

Sempre meglio che morire giovani

Come e perché invecchiamo
pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Tra le tante caratteristiche tipicamente umane una in particolare è forse meno conosciuta ma non per questo meno importante, anzi, probabilmente è l'ultima a cui molti rinuncerebbero: comparata a quella degli altri primati la durata della nostra vita è molto più estesa. Se noi riusciamo a superare agevolmente i 70 anni e talvolta anche i 100, solo raramente gli scimpanzé e le altre antropomorfe riescono a sopravvivere oltre i 50 anni. Considerate le notevoli risorse investite nel corso degli ultimi anni nella ricerca sui processi dell'invecchiamento era facile aspettarsi qualche indizio su come questo prolungamento della vita media sia potuto accadere ai nostri antenati, e proprio in questa direzione ci porta la recente ricerca pubblicata su PNAS da Caleb Finch, professore presso la Davis School of Gerontology e la University of Southern California.

Tutto comincia con il consumo di carne che diventando man mano più rilevante ha richiesto ai corpi dei nostri antenati una serie di aggiustamenti. Più carne significa anche più colesterolo e trigliceridi, e per questo motivo nel nostro sangue è presente una versione speciale dell'apolipoproteina E (utilizzata anche dagli altri primati per lo stesso scopo), che ci permette di gestire questa dieta tanto particolare per un primate. Il gene che specifica questa proteina, ApoE, scherma inoltre il nostro corpo anche dall'azione dei numerosi parassiti e dalle infezioni che il consumo di carne cruda, a volte recuperata da carcasse in decomposizione, può portare con sé. Tutto bene finora, non fosse che questo gene è polimorfico e presente nella popolazione essenzialmente in tre forme: ApoE2, ApoE3 e ApoE4. Se ApoE3, presente nella maggior parte della popolazione umana, è tanto efficacie nelle maniere sopra descritte, lo studio di Caleb Finch ci svela qualcosa di precedentemente poco conosciuto sulla forma ApoE4. Questa sembra essere fortemente implicata, oltre che con una minore efficienza nello sviluppo neuronale, proprio nei malanni “tipici” della vecchiaia: problemi di cuore, sindrome di Alzheimer e demenza senile.


La spiegazione di Finch riguardo a questo fenomeno è particolarmente suggestiva e tira in ballo una delle teorie più generali sulla parte terminale della nostra vita, la teoria cosiddetta “antagonista” dell'invecchiamento. Secondo questa ipotesi i geni che ci aiutano in gioventù, in questo caso nel limitare gli effetti negativi che il consumo di carne, importante per altri versi, ha portato con sé, possono essere responsabili di tutti quei disagi della vecchiaia per i quali spesso è difficile trovare una spiegazione. ApoE sembra essere, quantomeno per Finch, un esempio perfetto di questo meccanismo: qualche sacrificio nella vecchiaia per avere in cambio qualche anno in più di giovinezza.


Riferimenti:

Caleb E. Finch, "Evolution of the human lifespan and diseases of aging: Roles of infection, inflammation, and nutrition", PNAS, Published online before print December 4, 2009, doi:10.1073/pnas.0909606106


giovedì 14 gennaio 2010

Un gene per capire il nostro linguaggio

Nuove informazioni dal FoxP2

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Di tutte le caratteristiche che vengono in diversa misura considerate simbolo e prerogativa della nostra specie quella che raccoglie il maggior numero di “adepti” è certamente il lingaggio, e a ragion veduta! si tratta davvero di una delle caratteristiche più importanti che possediamo, e la nostra intera vita sarebbe difficilmente immaginabile senza di esso (per questo le patologie che lo riguardano sono particolarmente difficili da affrontare). Per questo motivo si comprende facilmente il notevole interesse seguito alla scoperta avvenuta nel 2001 di un gene, denominato FOXP2, strettamente correlato ad esso. I responsabili della scoperta, studiando una famiglia che presentava generazione dopo generazione (con distribuzione tipicamente mendeliana, indicante quindi l'azione di un gene solo) uno dei disturbi linguistici più frequenti, lo Specific Language Impairment (in italiano il Deterioramento Linguistico Specifico), riuscirono a individuare in questo gene il “responsabile” della sindrome ereditata. Più precisamente, era il suo malfunzionamento dovuto a una mutazione a causare il deterioramento linguistico, e proprio questo lo rende così importante per lo studio del linguaggio umano.

Ulteriori prove della sua importanza sono venute in tempi più recenti da studi ad ampio spettro sulle differenze tra il nostro genoma e quello degli altri animali. Si è trovato difatti che proprio la regione comprendente il FOXP2 è una di quelle che, altamente conservate negli altri vertebrati compresi gli scimpanzé (gli animali viventi più simili geneticamente a noi), sono mutate notevolmente all'interno della linea filetica ominide. Fino ad ora del gene FOXP2 si sapeva solo che è importante nel permettere i complessi movimenti muscolari che consentono i movimenti della bocca sottesi al linguaggio umano, ma proprio lo studio svolto da un team dell'Università della California capitanato da Daniel Geschwind assieme alla Emory University, da poco pubblicato su Nature, porta nuovi e interessanti dati al riguardo.

Partendo dalla considerazione che c'è una differenza di soli due amminoacidi nella proteina espressa dai geni FOXP2 di umani e scimpanzé, il gruppo di ricerca ha deciso di compiere un'analisi ad ampio raggio del gene, valutandone le complesse interazioni con gli altri geni, per comprendere l'effettiva portata di questa variazione per quanto riguarda la funzionalità del gene. Numerose analisi, sia in vitro che in vivo su porzioni di tessuto cerebrale di uomo e scimpanzé, hanno portato a risultati decisamente interessanti che confermano come le mutazioni occorse nello nostra linea filetica dopo che i nostri antenati si distaccarono da quelli degli scimpanzé abbiano portato notevoli differenze nella funzionalità del gene. Più in particolare FOXP2, in maniera molto diversa in umani e scimpanzé, regola lo sviluppo di certe specifiche aree sia della corteccia cerebrale (più precisamente zone considerate tra quelle responsabili del linguaggio e di altre abilità cognitive) sia dello striato, un area subcorticale del telencefalo coinvolta sia nella cognizione che nella coordinazione dei movimenti. Ancora più interessante è l'altro aspetto dei risultati ottenuti da Geschwind e colleghi: FOXP2 ha un ruolo centrale in una complessa rete di geni, che si regolano a vicenda “accendendosi” e “spegnendosi” nei momenti opportuni. Proprio questi geni, “collaborando” tra loro, sono quindi almeno in parte i responsabili dello sviluppo di uno dei talenti più famosi e celebrati della nostra specie, un talento di cui ora sappiamo molto più.



Riferimenti:




lunedì 11 gennaio 2010

Scimmie e sintassi

Parole da primate

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Chiedete a un bambino cosa sia lo “scimmiese” e lui non esiterà un secondo a rispondervi che è il linguaggio segreto che le scimmie usano tra di loro e noi non riusciamo a comprendere. Crescendo si impara che il linguaggio è una caratteristica posseduta solo dalla nostra specie, una sorta di confine che ci divide dagli altri animali, ma i recenti risultati ottenuti in Costa d'Avorio potrebbero rendere perlomeno più liquido, meno netto, questo confine. La comunicazione animale difatti è da sempre considerata rigida, in contrasto al flessibile linguaggio umano, e formata da richiami determinati e strettamente associati a stimoli ambientali; anche il celebre lavoro di Cheney e Seyfart sui cercopiteci grigioverdi, le prime scimmie tra le quali si scoprì la presenza in contesto naturale di segnali specifici per singoli predatori (che potevano quindi essere interpretati come frutto di una scelta semantica da parte dell'emittente), è stato perlopiù considerato come un elaborato sistema di reazione “rigida” a stimoli precisi. Il sofisticato sistema di comunicazione scoperto da Karim Ouattara e Alban Lemasson del Ethologie Animale et Humaine research group (CNRS / Université de Rennes 1), in collaborazione con Klaus Zuberbühler dell'Università di St. Andrews tra le scimmie di Campbell in Costa d'Avorio sembra però possedere caratteristiche troppo complesse perché ci si possa accontentare della spiegazione classica; il linguaggio umano, ancora ovviamente unicamente umano, sembra quindi avere dei precursori (o comunque delle versioni ipersemplificate), anche al di fuori del ristretto gruppo formato da noi e dai nostri antenati più prossimi.

In Novembre, con un articolo pubblicato su PlosOne, il team di ricercatori ha esposto per la prima volta il repertorio di sei vocalizzazioni tipiche di questa specie di scimmie arboricole, che probabilmente proprio per questa difficoltà nel contatto visivo data dal loro habitat sono portate alla comunicazione vocale. In particolare sono state analizzate le vocalizzazioni emesse dai maschi di sei gruppi di scimmie di Campbell (all'interno dei quali è presente un solo maschio che vive in posizione periferica), tre dei quali abituati alla presenza dell'uomo. I risultati ottenuti con l'osservazione diretta sono stati poi confermati da esperimenti di stimolazione, con manichini a forma di predatore o con registrazione degli stessi richiami o dei richiami delle scimmie di Diana, una specie che vive a stretto contatto con le scimmie di Campbell.
Questi sei richiami, un numero peraltro già di per sé rilevante, presentano già da soli interessanti indizi di una capacità sintattica, e in particolare due di loro sembrano derivare da altri due tramite un processo di “affissazione”. Come per molte parole delle lingue umane, infatti, i due richiami “krak-oo” (generico disturbo) e “hok-oo” (generico disturbo proveniente dagli alberi) presentano una radice, “krak” e “hok”, che a sua volta ha un significato diverso se usata singolarmente come richiamo (significati peraltro più precisi, rispettivamente “leopardo” e “aquila”); il suffisso “oo” appare quindi come in grado di rendere più generale un richiamo specifico. Le altre due vocalizzazioni in repertorio sono “boom”, usato solo in contesti non-predatori, e “wak-oo”, dall'utilizzo molto simile a “hok-oo” (l'unica differenza sembra essere che questo, a differenza di “hok-oo” non viene mai utilizzato per segnalare la presenza di altri gruppi vicini). Una possibile conferma ulteriore di questa funzione “generalizzatrice” svolta dal suffisso “oo” sembra venire da un ulteriore esperimento svolto dagli stessi ricercatori: facendo ascoltare alle scimmie di Diana, che come già detto condividono spesso l'habitat delle scimmie di Campbell, questi stessi richiami si è scoperto che queste reagiscono al richiamo “specifico” ma non comprendono il richiamo “generalizzato”; non hanno quindi imparato la funzione del suffisso “oo” o non sono in grado di comprendere delle regole sintattiche (come ci si aspetterebbe se queste fossero effettivamente presenti nel repertorio vocale delle scimmie di Campbell).


Un mese dopo il primo articolo gli autori hanno aggiunto nuove informazioni su questo complesso sistema di comunicazione, questa volta su PNAS. Continuando le osservazioni su questa specie di scimmie arboricole, i ricercatori hanno scoperto come raramente i richiami vengano lanciati singolarmente: nella stragrande maggioranza delle volte le sei vocalizzazioni vengono combinate tra loro in lunghe sequenze contenenti in media venticinque di loro. In questa maniera una specie caratterizzata da una scarsa flessibilità vocale (l'uomo è un eccezione nell'ordine dei primati, grazie a un peculiare apparato fonatorio) riesce a veicolare informazioni sorprendentemente complesse rispetto a quelle che ci si attenderebbe, “modulando” un messaggio grazie alla capacità di concatenare più vocalizzazioni in sequenze. Questo studio, che sicuramente non finisce qui ma promette nuovi interessanti sviluppi nei mesi e anni a venire, si inserisce in una serie oramai cospicua di scoperte che hanno modificato la nostra concezione della comunicazione animale: lungi dall'essere un frutto tardivo sbocciato improvvisamente sul ramo umano, alla periferia del cespuglio primate, il linguaggio in senso lato, ovvero la capacità di elaborare segnali complessi, grammaticali e semantici, sembra una caratteristica multiforme e diffusa perlomeno in altri rami dell'ordine dei primati. Se è indubbiamente vero che noi siamo la specie che lo ha sviluppato ai massimi termini, tanto che si fa fatica a paragonare la nostra produzione linguistica al resto della comunicazione animale, pure molte delle sue caratteristiche hanno, a quanto pare, una storia molto più antica della nostra.


Riferimenti:

Karim Ouattara, Alban Lemasson & Klaus Zuberbühler, “Campbell's Monkeys Use Affixation to Alter Call Meaning”, PLoS ONE 4(11): e7808. doi:10.1371/journal.pone.0007808